2° parte - Dalla catena di montaggio all'economia dei lavoretti saltuari e l'welfare è à la carte
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La voucherizzazione del lavoro. I cosiddetti lavoretti sono dunque lavori subordinati, anzi con un livello di controllo ed eterodirezione a tratti persino superiore rispetto a quello relativo ai tradizionali rapporti...
show moreI cosiddetti lavoretti sono dunque lavori subordinati, anzi con un livello di controllo ed eterodirezione a tratti persino superiore rispetto a quello relativo ai tradizionali rapporti di lavoro. Se si punta a mascherare questo aspetto, è solo per poter trarre vantaggio da una situazione nella quale si sottraggono diritti a soggetti che invece dovrebbero beneficiarne per bilanciare la loro situazione di cronica e strutturale debolezza sociale.
Si badi che al meccanismo descritto contribuiscono in modo determinante i clienti, chiamati a valutare il fattorino e con ciò a contribuire al mantenimento di un sistema di direzione e controllo dei lavoratori davvero penetrante. E magari fonte di discriminazioni, come avviene nel caso in cui le valutazioni, eventualmente fornite in forma anonima, si fondino su pregiudizi o facciano comunque leva su tratti identitari in qualche modo stigmatizzati dal cliente, e non sulla sola qualità e affidabilità del servizio. Per non dire delle situazioni in cui la valutazione negativa sia riconducibile a una percezione distorta di come si è svolto il servizio, o peggio alla volontà di calunniare o danneggiare il lavoratore.
L’economia on demand si fonda su un ampio ricorso ai sistemi reputazionali, e in particolare su forme di rating e feed back, motivo per cui non stiamo qui discutendo di un fenomeno marginale. Siamo cioè di fronte a pratiche costitutive del capitalismo delle piattaforme nella misura in cui concorrono in modo determinante all’edificazione di un ordine economico entro cui minimizzare sino ad azzerare la presenza della politica e dunque del diritto. Non solo il sistema di tutela dei lavoratori è disinnescato dal mascheramento del rapporto di subordinazione: lo stesso vale per la tutela del consumatore, rimpiazzata dal controllo reputazionale e dal relativo sistema di sanzioni sociali, e con ciò sottratta all’azione delle corti e delle autorità amministrative, a cui si impedisce così di interessarsi del funzionamento del mercato.
Insomma, l’economia on demand alimenta in modo decisivo ciò che abbiamo descritto in termini di riduzione della relazione di lavoro a una relazione di mercato qualsiasi. Sostiene insomma quanto si potrebbe chiamare la voucherizzazione di quella relazione: che si vuole tendenzialmente relativa al mero scambio di denaro contro prestazione manuale o intellettuale. Senza che questo scambio faccia sorgere obbligazioni accessorie di alcun tipo, o che sia comunque completata da previsioni concernenti il contenuto dell’accordo o il modo di instaurarlo e scioglierlo.
Eppure ci sarebbe una figura contrattuale utilizzabile per preservare da un lato il carattere della subordinazione e valorizzare dall’altro l’eterogeneità del fenomeno dei cosiddetti lavoretti, e in particolare le richieste di flessibilità temporale a vantaggio del datore di lavoro e persino del lavoratore: almeno di quelli interessati a entrare in una relazione in cui sia data la possibilità di scegliere davvero liberamente se, quando e quanto lavorare. Si potrebbe cioè ricorrere al contratto di lavoro intermittente, introdotto al principio degli anni Duemila, definito come “il contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno”. Il tutto senza garanzia di un impiego orario del lavoratore, fatta salva la possibilità di stabilire un obbligo di disponibilità per il quale il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore una indennità pari a una percentuale della retribuzione prevista. L’obbligo in discorso potrebbe però non essere previsto, il che mette in crisi un fondamento della decisione del Tribunale di Torino sui rider Foodora. Lì non si è ammessa la fattispecie della subordinazione in quanto essi “avevano la piena libertà di dare o meno la propria disponibilità”, ma come abbiamo appena visto ciò non comporta necessariamente l’inquadramento come lavoratore autonomo...
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