Il valore del silenzio secondo San Benedetto
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TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7014 IL VALORE DEL SILENZIO SECONDO SAN BENEDETTO di Madre Ildegarde Cabitza Uno tra i più singolari contrasti, e insieme uno dei più facili a verificarsi, è...
show moreIL VALORE DEL SILENZIO SECONDO SAN BENEDETTO di Madre Ildegarde Cabitza
Uno tra i più singolari contrasti, e insieme uno dei più facili a verificarsi, è dato senza meno dal fascino che da un lato esercita sull'anima umana, quasi suo malgrado, il silenzio, e d'altra parte dal prepotente bisogno che tutti sentiamo di effonderci in parole, di raccontare noi stessi, di entrare in comunicazione, intrecciando discorsi con quel misterioso mondo che rappresenta ognuno dei nostri fratelli.
Eppure, se appena riflettiamo, giungiamo senza difficoltà a renderci conto che il più delle volte, parlando, sfuggiamo a noi stessi, perdiamo il controllo delle parole, e molto spesso non riusciamo a tradurre il nostro vero volto interiore, così che ci sentiamo poi come svuotati, delusi, scontenti.
Non che la parola sia cattiva in sé: no davvero, ma è uno dei preziosi doni di Dio dei quali è più difficile fare buon uso, e mentre ci è stata data per essere traduzione sensibile del pensiero, aderendo perfettamente ad esso, in realtà non di rado noi ne abusiamo, servendocene a tradire il pensiero stesso, piegandola a indugiare nella vana compiacenza di sé medesima, quasi ammaliata dalla propria risonanza. Deve per questo essere controllata da una assidua disciplina, se non vuol divenire vano "flatus vocis" che impoverisce chi la pronuncia, senza arricchire chi la riceve.
Non ci sono creature più vuote e stucchevoli dei chiacchieroni, mentre niente è più benefico all'anima del contatto con altre anime capaci di maturare nel silenzio un'idea e di svelarne l'essenziale con sobrietà di termini gravidi di concetto, che divengano veicolo del pensiero e non banale alternarsi di suoni.
IL VALORE DEL SILENZIO
In ogni epoca della storia, dai filosofi pagani così come dagli asceti cristiani, è stato universalmente riconosciuto e affermato il valore del silenzio, in cui si forgia la parola interiore che sola merita di essere comunicata ad altri attraverso il veicolo del linguaggio.
E sempre le anime più profonde hanno sentito e continuano a sentire l'esigenza della solitudine, quasi rifugio in quel silenzio dal quale invece rifuggono gli spiriti superficiali nell'istintivo timore di trovarsi faccia a faccia con se stessi.
La Sacra Scrittura ha un'affermazione categorica: "Nel silenzio e nella speranza sarà la tua forza" (Is 30,15), e ogni spiritualità degna di questo nome, ha sempre trovato lontano dal frastuono, da ogni verbosità vana, il clima più adatto per la preghiera, per il contatto intimo con Dio.
Uno dei padri del monachesimo vede l'anima portata dalla terra verso il cielo su una quadriga alla quale può affidarsi sicura: il silenzio, la carità, l'umiltà, la castità.
In San Benedetto questa sete di silenzio si manifesta irresistibile, spingendolo alla montagna solitaria, ai tre lunghi anni dello speco, durante i quali il Santo si interdice ogni contatto con gli uomini; è la stessa sete che lo induce, a Montecassino, a vegliare nella profondità della notte, mentre tutti dormono, ed egli affonda lo sguardo nell'abisso del cielo da cui sembra affiorare la celebre visione del mondo, tutto raccolto in un raggio di luce.
E in un'atmosfera tutta pregna di silenzio, San Benedetto ha voluto si svolgesse la vita dei suoi monasteri, di ognuno dei suoi figli, raccolti in Dio così da non sentirsi oppressi da una rigida legge disciplinare, intenta a sopprimere la parola, ma piuttosto custoditi a tutela amorosa di un loro colloquio interiore in cui ogni parola vana risuona come una dissonanza.
Tutto ciò spiega la preoccupazione assidua della Regola che non vieta assolutamente di parlare, ma piuttosto insegna l'uso religioso della parola e chiede al monaco lo "studio" amoroso della "taciturnità", ed esige lunghe pause di silenzio profondo, come soste ristoratrici dell'anima che inevitabilmente risente il logorio della pur necessaria attività esteriore.
UN BENE CUSTODITO E DIFESO
Perché il silenzio per avere la sua efficacia piena come mezzo ed elemento di vita spirituale feconda, non può limitarsi a essere onesto assenso a una legge passivamente accettata, o un coscienzioso atto di obbedienza alla Regola, ma deve con essa combaciare in quanto esigenza dell'anima che scaturisce dal profondo, deve essere percepito come un bene, e come tale custodito e difeso.
Le voci delle creature, ogni volta che un motivo di dovere o di carità non ci determini ad accoglierle, se pure non hanno in se stesse niente di male, vengono però sempre a frapporsi fra l'anima nostra e Dio, sia come elemento di dissipazione, attirando il nostro interesse nelle direzioni più diverse, e in tal modo disperdendoci nella molteplicità, sia per il piacere che esse provocano, captando la nostra sensibilità, e imprigionandoci nella loro limitatezza di realtà finite.
Costituiscono sempre un intoppo, un impedimento al libero volo dello spirito teso alla ricerca di Dio, a quella ricerca esclusiva che dovrebbe unicamente impegnare ogni attività spirituale del monaco.
Ciò che in qualsivoglia altra vocazione può riuscire non solamente innocuo, ma consigliabile, e in taluni casi doveroso, per noi è un non senso, perché la ragione ultima della vocazione monastica, nella sua essenza genuina, è proprio da ricercarsi in questa fuga dal mondo, nell'estraniarsi dalle sue abitudini di vita, per stabilirsi nella solitudine, "desiderando di piacere solo a Dio" (Gregorio Magno). Ne deriva che il monaco, il quale non solo non avverta il disagio, ma anzi si compiaccia di discorsi vani, e ne lasci invadere la sua solitudine, è un controsenso, in quanto vive in opposizione abituale proprio con quelle tendenze profonde che dovrebbero averlo determinato all'elezione della vita monastica.
NON AMARE DI PARLAR MOLTO
Può darsi il caso che le circostanze impongano la necessità di dover parlare, e anche molto parlare, ma l'anima, in situazioni del genere, dovrebbe sperimentare un penoso senso di costrizione, dal quale sente il bisogno di evadere, non appena si allenti la stretta del dovere.
San Benedetto, con profonda sapienza, non ha detto: "Non parlar molto", ma: "non amare di parlar molto" (RB4,52). La cosa è ben diversa.
Del resto, in qualunque condizione di vita, perché la voce di Dio raggiunga l'anima, e l'anima stessa possa percepirla con chiarezza, ordinariamente è necessaria questa atmosfera di silenzio, poiché Egli non si comunica con strepito di parole, ma in modo misterioso, quasi inafferrabile...
Il silenzio è lo scrigno che custodisce le nostre ricchezze più intime e le sottrae a ogni sguardo profano, dandoci coscienza delle risorse di forza, di sopportazione, di carità, che la grazia ha deposto in noi: non si esaurisce in un atto, o in una successione di atti, ma è un abito interiore che S. Benedetto traduce col nome di "taciturnità" e fiorisce in un clima risultante da un complesso di fattori esteriori, nei quali ci troviamo a nostro agio.
È diventato ormai un luogo comune parlare di silenzio benedettino e non sapremmo pensare un monastero senza unirvi istintivamente l'idea del classico "silentium", al quale concorrono gli ampi spazi dei chiostri, l'ordine della vita, il contegno intonato alla stessa struttura architettonica dell'ambiente. Ma questo non è tutto. Rimane anzi un semplice, puro elemento coreografico, se non riesce a essere espressione sensibile di quanto del silenzio monastico costituisce l'anima e la ragione d'essere: il bisogno di "abitare solo con se stesso sotto gli occhi del supremo spettatore" (Gregorio Magno) di far tacere le voci troppo forti delle cose per ascoltare il Creatore.
Perché l'anima benedettina è, essenzialmente, un'anima in ascolto, ma il Verbo, Parola eterna di Dio, non si comunica se non in un luminoso abisso di silenzio; "Mentre tutti tacevano... la tua parola onnipotente, Signore, venne dal tuo trono regale, alleluia!" (Lit. natalizia).
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