L'esempio dei martiri di Nagasaki
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In Giappone, nella mattinata di oggi, quando in Italia sarà ancora notte, è in programma l'omaggio di papa Francesco ai 26 santi martiri di Nagasaki († 5 febbraio 1597) presso il monumento a loro dedicato sulla collina di Nishizaka, a poche centinaia di metri dalla stazione principale della città colpita dalla bomba atomica il 9 agosto 1945.
Ricordare il loro esempio può essere un balsamo per la fede, poiché il modo in cui quelle popolazioni lontane hanno ricevuto l'annuncio del Vangelo e la gloriosa testimonianza che questi martiri hanno reso a Cristo crocifisso e risorto, abbracciandone la croce, possono dare delle sicure risposte alla Chiesa di oggi, come di ogni tempo, sul significato dell'evangelizzazione e della missione.
La storia di questi 26 santi affonda infatti le sue radici nell'opera del patrono delle missioni, il gesuita san Francesco Saverio, che il 15 agosto 1549, in compagnia di due confratelli e di un giapponese convertito (Anjiro), sbarcò a Kagoshima, nella regione più a sud del territorio nipponico, e iniziò a predicare nel nome di Gesù. Molti giapponesi, colpiti da quella promessa di salvezza eterna che sentivano per la prima volta, si fecero battezzare. San Francesco Saverio lasciò il Giappone nell'inverno di due anni più tardi, dopo aver convertito oltre mille persone. Fulcro principale di quella prima comunità cristiana nella terra dei samurai divenne presto la città di Nagasaki.
L'evangelizzazione proseguì con altri missionari e nel 1587 si contavano già più di 200.000 battezzati, tra cui vi erano anche alcuni daimyo, cioè signori feudali, anch'essi rimasti attratti dalla fede cattolica. Proprio in quell'anno, tuttavia, il daimyo più potente, Toyotomi Hideyoshi, il più vicino all'imperatore e in un primo momento non ostile al cristianesimo, emise il primo editto contro i cristiani, mettendo al bando i missionari perché indispettito da vari fatti, come il rifiuto dei gesuiti di fornire una nave per invadere la Corea, l'opposizione delle vergini cristiane a divenire concubine dell'imperatore, nonché la volontà di controllare meglio i daimyo convertiti, che parlavano di Gesù come del loro vero Signore.
L'INIZIO DELLA PERSECUZIONE
L'editto rimase comunque pressoché inattuato per diversi anni, fino a quando Hideyoshi, nel novembre 1596, si risolse a dare inizio alla persecuzione, dopo che uno spagnolo gli aveva messo una falsa pulce nell'orecchio dicendogli che i missionari erano lì per preparare la conquista straniera. Hideyoshi, che intanto aveva accresciuto il suo potere, ordinò sia l'espulsione dei missionari sia l'abiura della fede da parte dei giapponesi convertiti. Moltissimi cristiani furono costretti a cercare rifugio nelle campagne, ma 26 di loro, indigeni e stranieri, vennero catturati. Si trattava di 6 francescani d'origine spagnola o portoghese, 3 gesuiti e 17 terziari francescani giapponesi.
Come primo supplizio, ai prigionieri venne tagliato un pezzo dell'orecchio sinistro in una piazza pubblica. Seguì una lunghissima ed estenuante marcia a piedi dalla città di Kyoto, allora la capitale, a Nagasaki: circa 600 chilometri, per giunta nei mesi con il clima più rigido. L'intenzione di Hideyoshi era quella di terrorizzare il più possibile la comunità cristiana, dandole una lezione esemplare e così da scoraggiare nuove conversioni nel popolo: precisamente per questo volle che l'esecuzione avvenisse a Nagasaki, sede appunto del più folto gruppo di cristiani.
I 26 arrivarono in città il 5 febbraio 1597, sfiniti da trenta giorni di cammino, durante i quali trovavano sollievo cantando il Te Deum. Tra le vittime predestinate vi erano tre fanciulli, di 12, 13 e 14 anni: Luigi Ibaraki, Antonio Daynan e Tommaso Kozaki, terziari francescani, che durante il tragitto diedero prova di quanto fosse salda la loro fede, rifiutando le offerte di rinnegare Cristo per aver salva la pelle. Sulla collina di Nishizaka, il luogo scelto per l'esecuzione, che era stata fatta annunciare in anticipo da Hideyoshi, si riversarono quattromila cristiani, i quali, all'arrivo dei condannati a morte, diedero loro coraggio e si raccomandarono alle loro preghiere.
Sulla collina erano state preparate delle croci, ognuna riportante i nomi dei futuri martiri, che appena le videro si misero in ginocchio e le baciarono. Furono legati con corde e anelli di ferro, e innalzati contemporaneamente. Sotto ciascuna delle croci stavano due samurai, armati con lance di bambù ben affilate, che attendevano solo il comando per trafiggere il petto dei 26. L'ufficiale che presiedeva all'esecuzione, Hazaburo Terazawa, aveva ricevuto precisi ordini da Hideyoshi, che voleva un supplizio lento, affinché la fatidica attesa accrescesse il terrore tra i condannati e tra la folla.
Ma quell'attesa si tramutò in un'immensa manifestazione di fede cristiana. All'improvviso, uno dei crocifissi intonò il Benedictus, poi il tredicenne Antonio Daynan cantò il «Lodate, fanciulli, il Signore», seguito a ruota dagli altri due giovanissimi, Luigi Ibaraki e Tommaso Kozaki. Un francescano iniziò la recita di semplici litanie a Gesù e Maria, accompagnate dai quattromila cristiani presenti.
PAOLO MIKI MORÌ DICENDO: "ACCETTO LA MORTE COME UN GRANDE DONO DEL MIO SIGNORE"
Il giovane gesuita Paolo Miki, capofila del gruppo nel Martirologio, nato da una nobile famiglia nipponica e divenuto un grande predicatore, chiese a un certo punto di poter parlare. «Io sono giapponese e fratello della Compagnia di Gesù. Non ho commesso alcun reato. L'unica ragione per cui sono condannato è che ho insegnato il Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo. Sono felice di morire per Lui e accetto la morte come un grande dono del mio Signore». Miki disse quindi di perdonare i carnefici, esortò tutti i presenti a convertirsi a Cristo e li invitò a guardare il volto suo e degli altri crocifissi, spiegando che in nessuno dei 26 avrebbero trovato traccia del timore della morte perché ognuno di loro sapeva di essere atteso in Paradiso.
Arrivò infine l'ordine di Terazawa ai samurai. Il primo a essere trafitto fu il francescano Filippo di Gesù, mentre l'ultimo fu padre Pietro Battista, che qualche istante prima aveva battezzato una donna muta, la quale, a contatto con la croce, riacquistò miracolosamente la parola. Fu solo uno dei tanti prodigi che avvennero sulla collina di Nishizaka, tra numerosi testimoni, e che proseguirono per settimane: al centro di quei prodigi c'erano i corpi dei martiri, che le autorità lasciarono a lungo sulle croci, con molte sentinelle di guardia, per impedire ai fedeli di seppellirli.
Il piano di Hideyoshi, morto l'anno successivo, era fallito perché molti, attratti dall'esempio di quei gloriosi martiri, continuarono a chiedere il Battesimo. Negli anni seguenti le misure contro il cristianesimo proseguirono e iniziò così l'epoca dei cristiani nascosti, un'altra straordinaria storia di fedeli giapponesi che per secoli, di generazione in generazione, hanno tramandato la fede in Gesù, custodendola come il bene più prezioso.
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