SLA
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Mia moglie ogni tanto passa di qua. Tra una faccenda e l’altra non dimentica mai di venire un momento, appena può, ad accarezzarmi il viso. Mi passa una mano su...
show moreTra una faccenda e l’altra non dimentica mai di venire un momento, appena può, ad accarezzarmi il viso. Mi passa una mano su una guancia e mi sorride, mi chiede se ho bisogno di qualcosa.
Mia moglie con un sorriso può avvicinare le stelle, dovreste vederla. E la sua mano, la sua mano è spesso umida, di passaggio tra un bucato o una pietanza; eppure mi bagna di calore. Mi adagia su questi giorni che mi passano intorno come un fiume, un fiume di cui io sono adesso nient’altro che un frammento di inutile ghiaia.
Un giorno… stavo lì a farmi un caffè; feci per chiudere la moka, feci per chiuderla… Avvicinavo i due pezzi, giravo e rigiravo, non capivo, sembravano respingersi, come poli opposti su di un chiassoso stridio di lamiera…
Poi le mie mani mollarono, e venne giù tutto; e ancora non sapevo che anche io mi sarei sparso così, come quel mucchietto di polvere marrone disegnato sul pavimento.
Oggi ho di fronte sempre lo stesso soffitto, e misuro, ogni secondo che passa, quanto sia infinitamente distante il mio essere umano da quella superficie bianca che da mesi ormai mi sovrasta, come un drappo vuoto, una bandiera senza colori che sventola di noia la mia malattia.
Io sono fermo.
Io sono muto.
Sono un albero piantato nel mio letto, con le radici che scavano nel materasso, si aggrappano, rigirano attorno ai fili metallici della rete.
Sono in attesa perenne, impotente, farfuglio aria da un tubo in trachea, eppure son vivo.
La prima domanda che mi sono fatto è stata “perchè proprio a me, che ho fatto di male ?”. Ma era troppo banale. Questa è la domanda di tutti i malati. Chiunque di fronte a un dolore si chiede perchè, il senso o il motivo, chiunque, si tratti di cancro o di un’unghia incarnita.
Il passo era molto più lungo, l’abisso molto più profondo.
Perchè le altre malattie se ti uccidono, ti lasciano uomo. Questa no.
Qui sei morto, sepolto, prima ancora di andare.
Ecco, mia moglie mi parla, mi tocca, sorride, mi ama. E io qui è come se non ci fossi, è come se fossi detenuto di me stesso, prigioniero dentro il mio corpo, chiuso per sempre in un barattolo di carne umana.
I miei occhi sono il vetro trasparente attraverso il quale guardo fuori…
i miei occhi sono la mia voce gettata al di là delle sbarre, verso il mare, oltre gli scogli.
Io amo in un battito di ciglia, come l’albero che canta di foglie al passare del vento. Il mio più lungo discorso è un agitarsi di palpebre nel vuoto, un alfabeto morse ridicolo, captato solo da chi mi ama.
Io parlo così. Oppure con la voce sintetica di un computer.
Ma non è solo questo. A volte, di notte, mentre dormo, sogno di correre a lungo, senza motivo, senza una meta, come spesso fanno i bambini. Sogno di andare.
Da sveglio, immaginatemi dentro.
Mi penetra, mi percorre un’energia infinita e bestiale che ruota, risbatte, si tuffa e risale. E mai, mai, trova un’uscita. A tratti s’acquieta. Allora mi sorprendo a godere di un raggio di sole che mi raggiunge dalla finestra, o di una canzone che passa dai muri e rigira qui intorno.
Poi tutto riprende e resto schiacciato da una mano invisibile che preme il mio corpo in un supino supplizio.
Sclerosi Laterale Amiotrofica… che cazzo significa… cambiatele nome, datele un senso !
Un cadavere vivo piantato nel mondo, ecco cosa sono; una statua vivente che spera nel tempo o in un gesto pietoso.
Mia moglie ogni tanto passa di qua.
Ho imparato da poco
a dirle ti amo con gli occhi
©Thomas Pistoia
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