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I pungenti commenti del giornalista Antonio Socci stimolano ad avere uno sguardo critico sulla realtà
28 SEP 2022 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7155
COSA RENDE I NOSTRI GIOVANI COSI FRAGILI? di Antonio Socci
Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato Modernità e Libertà. Ma è spesso un deserto inospitale dove soffia un vento di infelicità e di morte.
Lo attestano anche le drammatiche statistiche sui suicidi dell'Osservatorio suicidi della Fondazione Brf (Istituto per la ricerca in Psichiatria e Neuroscienze).
Da gennaio ad agosto di quest'anno ci sono stati 351 suicidi e 391 tentativi: un suicidio ogni 16 ore e un tentativo di suicidio ogni 14. Particolarmente grave l'aumento dei casi fra i giovani (in modo speciale nel biennio della pandemia).
Queste tragedie sono la punta dell'iceberg di una condizione di disagio, di solitudine, di ansia o depressione che fra i giovani è molto ampia e sta crescendo. Naturalmente ognuno è una storia a sé, ognuno ha i suoi problemi e ognuno è un mistero unico. Ma tutti insieme delineano un dramma sociale - o spirituale - che riguarda il nostro tempo.
Ciò che accomuna tutti noi è il desiderio di felicità o il voler sfuggire all'infelicità.
Scriveva Pascal: "Tutti gli uomini cercano di essere felici, compresi quelli che stanno per impiccarsi".
Felicità e infelicità sono sentieri che conducono in una terra misteriosa, quella della nostra anima, che non si esplora con la sociologia.
Quando si parla di disagio esistenziale ogni volta si tentano spiegazioni sociologiche che però spesso si contraddicono o illuminano solo un pezzo di realtà, ma non vanno alle radici del problema.
Sono spiegazioni che lasciano insoddisfatti.
LE GENERAZIONI PRECEDENTI
Perché le condizioni materiali di vita pesano, ma non sono l'aspetto determinante. Altrimenti non si spiegherebbe perché i nostri genitori - giovani durante la guerra e il dopoguerra - affrontarono la miseria, la fame, i bombardamenti, il durissimo lavoro della ricostruzione, con una forza morale travolgente (che fra l'altro produsse il "miracolo economico" e il "baby boom"), mentre i nostri figli - che hanno una vita enormemente facile - sono così smarriti e fragili.
Cos'è andato perduto rispetto alle generazioni precedenti che - senza alcun dubbio - sopportavano condizioni di vita molto più dure? Possiamo dire che erano spiritualmente più forti anzitutto per l'atmosfera cristiana in cui erano nate e cresciute?
Affrontavano le tragedie con maggior resilienza (come si dice oggi).
C'è una commovente intervista alla poetessa Alda Merini, dopo il terremoto in Abruzzo del 5 aprile 2009, che la televisione trasmise il 9 aprile.
La Merini, nata nel 1931, si definiva "abbastanza" credente e in quell'occasione disse: "Anch'io sono stata 'terremotata' da un manicomio all'altro.
Ognuno di noi ha avuto le sue scosse, però è nel momento del dolore che bisogna stringere i denti. Noi adesso partecipiamo a questa tragedia italiana, però non fermiamoci al dolore. Stringiamo i denti e andiamo avanti. Dio guarda tutti, ci vede, guarda i terremotati, vede gli infelici e non abbandona il mondo. Io sono sicura. E uno dei mezzi perché Dio ci ascolti è proprio la poesia, la preghiera, il canto".
Questo era l'animo delle generazioni che ci hanno preceduto. Le società del passato non erano migliori di oggi. Erano più ingiuste e la vita molto più dura. Ma anche questo dimostra che i nostri vecchi - pur con le loro fragilità e miserie - avevano una solidità ammirabile.
CLIMA SPIRITUALE CRISTIANO
Non perché tutti fossero dei devoti. Ma tutti respiravano quel clima spirituale che aveva permeato i secoli in Italia e toccava anche agnostici e atei. Non a caso il padre della cultura laica italiana, Benedetto Croce, scrisse nel 1942 "Perché non possiamo non dirci "cristiani", spiegando che tale qualifica "è semplice osservanza della verità".
Il laico Federico Chabod concordava e aggiungeva: "Anche i cosiddetti 'liberi pensatori', anche gli 'anticlericali' non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito europeo".
Negli ultimi anni questo interrotto fiume spirituale si è come disseccato. Si è prodotta una rottura che non è solo culturale, ma anche esistenziale. I giovani - che nei prossimi giorni torneranno a scuola, con i loro problemi, i loro sogni e il loro disagio - sono sostanzialmente ignari del passato, soli di fronte al mistero della loro vita e al futuro.
La scuola (ma dovremmo parlare anche della Chiesa e delle nostre famiglie) non sa trasmettere come un'eredità viva ciò che le generazioni precedenti hanno creato, amato, professato, sofferto e vissuto.
Inostri ragazzi sembrano sospesi fra la realtà virtuale dei social e una scuola o una società ossessionate soprattutto dai comportamenti, dal politicamente corretto, dalle ideologie oggi dominanti (come l'ecologia: è l'epoca di Greta Thunberg).
Si prescrive "come" comportarsi, ma nessuno comunica nulla sul "perché" vivere.
Tanto meno si fa "parlare" su questo la cultura e l'arte del nostro passato.
La realtà non virtuale che i ragazzi conoscono è quella dei coetanei, sono rapporti talora violenti e in genere superficiali o poveri. Ne scaturisce una fragilità emotiva spaventosa, una solitudine che raramente incontra un abbraccio di comprensione o compassione.
A volte però basta un incontro vero (un maestro, un amico, un genitore) per far scoprire la bellezza del presente, la ricchezza del passato e la promessa custodita dal futuro. Ma resta l'enorme problema educativo di un Paese smarrito.
10 MAY 2022 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7000
LA METAMORFOSI DELLA SINISTRA ITALIANA: DALL'UNIONE SOVIETICA... ALLA NATO di Antonio Socci
Le Metamorfosi di Ovidio? Nulla rispetto alle metamorfosi dei comunisti italici, comprese le più recenti con le quali sono diventati "pasdaran" dell'ortodossia atlantica, severi censori del pacifismo e predicatori umanitari.
E questo senza mai riconoscere l'errore di essere stati comunisti al tempo dell'Urss di Breznev e Andropov. Anzi ritengono di avere tutti i titoli per dare lezioni oggi di atlantismo e umanitarismo.
Prendiamo l'editoriale (sul "Corriere della sera" di venerdì) di Walter Veltroni, il quale è una persona gentile, intelligente e piacevole, ma in quel pezzo ha cucinato un confuso minestrone in cui riesce a cantare le lodi del Nord Vietnam comunista che combatteva contro "l'invasione straniera" degli Usa e - al tempo stesso - le lodi dei soldati Usa che sbarcarono in Italia e in Normandia per combattere contro il nazifascismo (non furono due "invasioni" per la libertà?).
Un inno combattente in cui Veltroni rinfaccia (senza nominarli) a Santoro e compagni il passato, ma dimenticando il suo. E il suo non è il passato di uno qualsiasi: Veltroni - iscrittosi alla Fgci nel 1970 - è stato poi uno dei dirigenti nazionali del Partito Comunista Italiano quando ancora c'era l'Urss e il blocco comunista (la vicenda degli euromissili e di Comiso è degli anni '80 e Veltroni c'era).
Il Pci era un "partito fratello" di quel Pcus da cui vengono Putin e la classe dirigente russa di oggi. Quel Pcus a cui obbediva il Pci togliattiano, a lungo finanziato da Mosca (per capire quando finirono i finanziamenti bisogna leggere "Oro da Mosca" di Valerio Riva e non solo "L'oro di Mosca" di Gianni Cervetti).
Da chi è stato parte della storia comunista ci si aspetta una riflessione vera sulla classe dirigente post-comunista che oggi governa a Mosca e sulle macerie lasciate dal comunismo.
IL PCI E GLI ORRORI DELL'URSS
Prima di tuonare per tutto un editoriale contro la presunta "indifferenza" che Veltroni imputa a chi non condivide le sue attuali idee "atlantiste" sull'Ucraina, dovrebbe spiegarci quanto fu "indifferente" il suo Pci nei confronti degli orrori dell'Urss e regimi compagni.
Negli anni Settanta, quando lui era un militante comunista, già sapevamo tutto, già era uscito "Arcipelago Gulag" e sull'Unità e poi su Rinascita, nel febbraio ‘74, Giorgio Napolitano, a nome del Pci, scriveva che l'espulsione del dissidente Solzenicyn era "la soluzione migliore "perché lo scrittore aveva "finito per assumere un atteggiamento di ‘sfida' allo Stato sovietico e alle sue leggi" e "non c'è dubbio che questo atteggiamento - al di là delle stesse tesi ideologiche e dei già aberranti giudizi politici di Solzenicyn - avesse suscitato larghissima riprovazione nell'URSS".
Napolitano, che allora si scagliava contro "l'antisovietismo", è il simbolo autorevole del passaggio dal Pci filosovietico (lui fu dirigente del Pci al tempo di Togliatti) all'atlantismo più zelante.
Ma senza mai fare autocritiche. Nella sua "autobiografia politica" del 2005 intitolata "Dal Pci al socialismo europeo" neanche cita mai Solzenicyn.
Carlo Ripa di Meana, nel 2008, alla morte dello scrittore russo, su "Critica sociale", in un articolo intitolato "Solzenicyn e il silenzio del Quirinale", scriveva:
"Avevo sommessamente suggerito, qualche mese fa, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel 1974, allora responsabile della cultura del PCI, su l'Unità, aveva rumorosamente applaudito all'esilio comminato a Solzenicyn che, va ricordato, aveva già passato otto anni nel Gulag nell'immediato dopoguerra, che in una prossima occasione, o in forma privata o nel corso di una visita di Stato, chiedesse un incontro a Solzenicyn, ormai molto in là con gli anni e malato, per chiudere una pagina nera. Così non è stato. In questi ultimi giorni, mentre in tutto il mondo si sono ascoltate voci di statisti, di rimpianto e di riconoscenza per la grandezza di quest'uomo e della sua vita, da Roma-Quirinale è venuto un silenzio arido, privo di umanità".
WALTER VELTRONI
Veltroni nel 2008 era il segretario del Pd: si espresse mai sulla vicenda? È sicuro che la storia dei post-comunisti - di cui è parte - oggi legittimi i suoi moniti umanitari sulla presunta "indifferenza" altrui?
Oltretutto è un'accusa inaccettabile perché chi si oppone all'invio di armi, come i cattolici, lo fa perché vuole la pace per gli ucraini e lo fa dando loro ogni possibile aiuto umanitario (del resto bisogna anche non essere indifferenti ai costi pesantissimi che i bellicisti vorrebbero imporre agli italiani).
Quando si ha un tale passato comunista certamente si può evolvere e cambiare, ma bisognerebbe almeno evitare di andare a fare prediche agli altri sull'indifferenza, l'Occidente e la libertà.
Il "Corriere della sera", che oggi è guidato da giornalisti che vengono dall'"Unità", a cominciare dal direttore, si distingue per fanatismo occidentalista. Talleyrand - che di cambi di casacca era esperto - consigliava: "Surtout pas trop de zèle".
Anche perché si rischia il cortocircuito. Un intellettuale progressista francese, Robert Redeker, di recente ha osservato:
"La simpatia degli europei è legittimamente attratta dall'Ucraina e dalla sua resistenza all'invasione, mentre questa resistenza esprime tutto ciò che gli europei hanno rifiutato negli ultimi decenni, quella cultura alla moda ridicolizzata e che l'istruzione scolastica ha cercato di distruggere: il sentimento della nazione, l'amore per la patria, della terra, il senso del sacrificio militare, la difesa dei confini, la sovranità e la libertà".
È questa anche la contraddizione dei post-comunisti italici. Sono passati dall'apologia del cosmopolitismo apolide all'esaltazione del nazionalismo ucraino. Ma il nazionalismo non è lo spirito nazionale, come la polmonite non è il polmone. Il nazionalista impone la sua patria sulle altre. Il patriota ama tutte le patrie.
È legittimo e nobile che gli ucraini si difendano dall'invasore. Ma non si può esaltare quel nazionalismo ucraino che dal 2014 ha combattuto le regioni russofone. Somiglia al nazionalismo russo che oggi nega l'Ucraina. Patrie, non nazionalismi.
3 MAY 2022 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6992
IL TURISMO PUO' SALVARE IL BEL PAESE di Antonio Socci
Dopo due anni di pandemia, due anni da incubo, l'Italia del turismo sta ripartendo. Per il 2022 infatti le stime parlano di più di 92 milioni di arrivi e circa 343 milioni di presenze fra stranieri e italiani (un aumento - rispettivamente - del 43 per cento e del 35 per cento rispetto all'anno scorso).
Non siamo ancora tornati ai dati del 2019, ma la ripresa è forte. Sperando che i venti di guerra che soffiano impetuosi non gelino questa fioritura...
Con l'inizio di maggio sciameranno verso la Penisola milioni di persone che cercano nella nostra terra una Bellezza sognata e ignota, che tante volte hanno sentito raccontare o che hanno già assaporato e vogliono tornare a gustare.
La bellezza è - fin dall'antichità - il principale connotato dell'identità italiana. Già Marco Terenzio Varrone (116 a.C. - 27 a.C.), nella più antica delle 'laudes Italiae' che conosciamo, il 'De re rustica', del 37 a.C., celebra l'Italia come il giardino del mondo: "Voi che avete peregrinato per molte e diverse terre, ne avete vista una più coltivata dell'Italia? Io, per conto mio, non credo che ce ne sia".
Anche la nostra letteratura, ai suoi esordi, canterà questa caratteristica della Penisola. L'Italia è in Dante il "bel paese là dove 'l sì suona" o "l giardin de lo 'mperio". In Petrarca è "il bel paese / ch'Appennin parte, e 'l mar circonda et l'Alpe".
In una enciclopedia medievale l'Italia è la "terra pulcherrima, soli fertilitate pabulique ubertati gratissima", la bellissima terra, piacevole per la fertilità del suolo e l'ubertosità dei suoi pascoli.
BELLEZZA NATURALISTICA E PAESAGGISTICA
Insomma da secoli dire Italia significa dire bellezza naturalistica e paesaggistica. La quale è sì dovuta - anzitutto - a una fortunata collocazione geografica e a una felice situazione climatica, ma i tanti doni del Creatore si sono combinati con la straordinaria opera degli uominiche fin dall'antichità hanno arricchito la natura con il lavoro e l'ingegno.
Infatti è grazie agli agricoltori romani che furono introdotte da noi tantissime delle piante che oggi vediamo e coltiviamo e che provengono da altre aree del mondo. Così oggi l'Italia è un paradiso di biodiversità e questo è anche alla base della ricchezza della nostra alimentazione e della nostra cucina, parte non secondaria dell'attrattiva turistica.
Del resto non c'è solo la bellezza naturale. Il patrimonio culturale italiano non ha eguali nel mondo: più di 4 mila musei, 6 mila aree archeologiche, 85 mila chiese soggette a tutela e 40 mila dimore storiche censite.
Ma qui cominciano anche le dolenti note: l'incuria, gli scempi, gli abusi sono storia nota. Leonardo Sciascia scriveva nel lontano 1969: "L'Italia è il paese dell'arte ma le opere d'arte che vadano in malora".
Lo stesso assalto turistico a questo patrimonio e alle città d'arte se - per un verso - è positivo, per altro verso ha qualcosa di angosciante, pare un consumo "mordi e fuggi" che di quella bellezza non comprende nulla, scivola sulla superficie alla velocità di un selfie. E lascia una distesa di cartacce e lattine.
D'altronde l'Italia è un'unica, immensa, opera d'arte plasmata insieme dalla natura e da generazioni e generazioni di italiani, che sono stati il grande artista collettivo.
MILLENARIA BELLEZZA
Se i più geniali figli del nostro popolo - come Michelangelo - seppero dare forma prodigiosa al marmo o alle basiliche, i nostri umili contadini - imparando inizialmente dai monaci medievali che dissodarono un'Italia distrutta dalle invasioni barbariche - hanno dato forma al nostro paesaggio esprimendo in esso il loro sentimento della vita, la spiritualità che come popolo vivevano.
Franco Rodano, nelle sue "Lettere dalla Valnerina", descriveva incantato la bellezza che vedeva "in questa mia valle [dell'Umbria] e nei suoi poveri campi ancora amorosamente coltivati [...] nella netta geometria di questi poderi, che sono prodotto antico, di una lunghissima storia, di una millenaria capacità contadina (conservata dalla Controriforma) di vivere il lavoro non solo come duro travaglio disseminato di 'spine e triboli', ma anche come accurata e paziente ricerca, al tempo stesso, e del necessario e del bello".
Noi, italiani del XXI secolo, sembriamo perlopiù estranei a questa storia, viviamo immersi nella nostra millenaria bellezza con una distrazione che ferisce.
Possediamo un patrimonio ereditato, senza meriti, ma non sembriamo consapevoli della fortuna che abbiamo avuto, né delle nostre responsabilità.
Albert Einstein, che con l'Italia ebbe un legame profondo (ci visse per anni e anche una parte importante della sua famiglia ci ha abitato a lungo) un giorno disse: "Se io potessi liberamente scegliere il mio domicilio a libero piacere, vorrei vivere in Italia per il resto della mia vita".
Essere nati in un Paese così è una fortuna e un privilegio. Dovremmo avvertire il dovere di custodire, valorizzare e proteggere questa immensa opera d'arte per tutta l'umanità. In fondo la bellezza italiana è per tutti. Perché, come diceva Sviatoslav Richter, "ogni persona al mondo ha due patrie: la propria e l'Italia".
12 APR 2022 · VIDEO IRONICO: Una guerra promessa ➜ https://www.youtube.com/watch?v=Lwl_sZZ2q6w&list=PLolpIV2TSebVSarVSJS-Gy5hJo3_40bhI
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6973
SIA L'UCRAINA CHE LA RUSSIA HANNO FATTO CLAMOROSI ERRORI DI VALUTAZIONE di Antonio Socci
Davanti all'atroce spettacolo quotidiano di morti e distruzioni, tutti - a cominciare dal presidente ucraino Zelensky - dovremmo chiederci: era evitabile questa catastrofe?
L'interesse supremo dell'Ucraina era quello di scongiurare in tutti i modi una guerra sul suo territorio con una superpotenza nucleare come la Russia. Il fatto che il regime di Putin sia regredito a un brutale dispotismo aggressivo doveva indurre Zelensky a considerare l'invasione come il male peggiore. Doveva far di tutto per evitarla, avendo una grande inferiorità militare.
Nel Vangelo c'è un insegnamento di grande realismo per chi governa: "quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace" (Lc 14, 31-32).
Zelenskij poteva evitare così questa tragedia al suo Paese? Forse sì. Sappiamo infatti, dal Wall Street journal, che il 19 febbraio scorso (quando già le truppe russe erano ammassate ai confini), il cancelliere tedesco Scholz ha proposto a Zelensky la possibilità di una de-escalation: la condizione era "rinunciare all'adesione alla Nato" e "dichiarare la neutralità come parte di un più ampio accordo europeo di sicurezza tra l'Occidente e la Russia".
In pratica un'Ucraina neutrale come l'Austria. L'accordo proposto da Scholz "sarebbe stato siglato da Putin e Biden che insieme avrebbero garantito la sicurezza dell'Ucraina". Ebbene, Zelensky ha risposto no. Pur avendo ai confini l'esercito russo.
Dopo che è iniziata l'invasione, col suo corteo di morte, il presidente ucraino ha dichiarato (il 15 marzo) che era tramontata l'adesione alla Nato e (il 27 marzo) che si poteva ragionare sulla neutralità e pure sul Donbass. Ma ormai era tardi.
Probabilmente quando la trattativa vera inizierà l'Ucraina dovrà concedere molto più di quanto sarebbe bastato il 19 febbraio. E sarà un Paese devastato, con migliaia di morti. Mi pare un fallimento immane. La vittoria era scongiurare la guerra.
Oltretutto Zelensky era stato eletto per cercare un accordo con la Russia. Questo volevano gli ucraini.
Per esempio, la guerriglia in Donbass da anni provocava tanti morti. Perché Zelensky non ha pacificato quella regione imitando ciò che l'Italia ha fatto con l'Alto Adige? Eppure sapeva che da lì poteva partire l'incendio.
Il presidente ucraino deve chiedersi se le sue scelte sono state buone per il suo Paese o disastrose. Secondo Jean Paul Sartre "si è sempre responsabili di quello che non si è saputo evitare".
Ieri Moni Ovadia, intervistato dalla "Stampa", ha detto: "Zelensky non ha reso un buon servizio agli ucraini. Se hai vicino a te un colosso ringhioso, non fargli i dispetti. A meno che lui sia asservito agli Usa, cosa di cui sono convinto".
Oggi Biden punta sulla prosecuzione del conflitto per abbattere Putin. Come ha detto l'ex ambasciatore Usa Chas Freeman, gli Stati Uniti "hanno scelto di combattere fino all'ultimo ucraino".
Non credo che gli ucraini possano gioirne. Ma anche nell'establishment Usa importanti personalità si oppongono a questa strategia di Biden che rischia di creare un asse fra Russia, Cina e India. È disastrosa anche per gli Usa.
Nel frattempo il conflitto devasta l'economia degli stati europei e può diventare una guerra mondiale con il rischio dell'apocalisse atomica.
Da Washington ora si illude Zelensky col miraggio di una vittoria. Ma Sun Tzu, grande stratega militare, diceva: "nell'operazione militare vittoriosa, prima ci si assicura la vittoria e poi si dà battaglia. Nell'operazione militare destinata alla sconfitta, prima si dà battaglia e poi si cerca la vittoria".
Tentare l'azzardo di una vittoria pressoché impossibile rischia di far annientare l'Ucraina e di portarci tutti nel baratro.
Zelensky in queste settimane ha mostrato un coraggio fisico eroico, gli va riconosciuto. Ma forse oggi deve trovare il coraggio di sottrarre se stesso alle pressioni e sottrarre il suo popolo alla guerra delle due grandi potenze.
Nota di BastaBugie: Stefano Magni nell'articolo seguente dal titolo "Cosa c'è dietro la pessima performance militare dei russi in Ucraina" spiega perché in Italia si fa fatica a parlare degli insuccessi militari russi e a riconoscerne le cause.
Ecco l'articolo completo pubblicato su Atlantico il 1° aprile 2022:
C'è una differenza fondamentale fra le analisi della guerra in Ucraina formulate dagli esperti italiani e quelle che vengono pubblicate nel resto del mondo occidentale, negli Usa e nel Regno Unito in particolare.
Le relazioni dell'intelligence statunitense o gli studi dell'autorevole Rusi di Londra (il centro studi fondato da Wellington), pur con grande prudenza e con un differente grado di ottimismo, constatano che l'esercito russo non sia all'altezza delle aspettative. Nella difficoltà a rifornire le truppe, così come nell'incapacità di proteggere i propri generali (ben sette uccisi dall'inizio della guerra) e nell'insufficienza dell'aviazione che non è ancora riuscita a conquistare il pieno dominio dell'aria, gli analisti occidentali notano che vi siano delle carenze strutturali nell'Armata, non solo degli errori commessi in questa campagna. Il generale David Petraeus, che vinse l'ultima fase della guerra di contro-insurrezione in Iraq, pur con mille prudenze, parla addirittura della possibilità che il Davide ucraino possa battere sul campo il Golia russo. Prima di lui lo aveva detto il generale McMaster, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump.
Quando si torna alla lingua italiana, invece, si entra di nuovo in un altro mondo. Un mondo in cui l'Armata russa è un lento rullo compressore che schiaccia quel che vuole. E se non schiaccia qualcosa, è solo perché non ha voglia di farlo. Putin non ha sbagliato nulla, insomma, non ha mai fallito il blitz iniziale per decapitare il governo ucraino perché non era mai stata sua intenzione. Le difficoltà logistiche, evidenti sin dalle prime fasi? Sciocchezze, siamo noi che non abbiamo capito come i russi combattono. E allora perché la guerra sta andando così male?... I russi stanno già prendendo tutto quel che volevano. A produrre queste analisi, oltre a docenti che a stento riescono a nascondere la loro simpatia per Vladimir Putin, sono anche generali, esperti, tecnici super-partes.
Eppure nessuno di loro riesce a spiegare perché un esercito che si presenta come il secondo del mondo, con il più grande parco di carri armati e automezzi, che vanta di essere all'avanguardia della guerra corazzata, si trovi a combattere in un terreno pianeggiante (l'ideale per ogni comandante di divisioni corazzate), con la piena superiorità aerea, una netta superiorità di uomini e mezzi, contro una nazione che è fra le due più povere d'Europa... e in più di un mese non riesce nemmeno a sfondare le linee. Si sente ripetere che, presto o tardi, l'Armata sfonderà e dilagherà. Non ne dubitiamo, vista la disparità di forze in campo. Ma la guerra, così come il mondo intero l'ha vista finora, è già una macchia indelebile sulla reputazione dell'Armata. Sulla carta, la Russia doveva essere in grado di reggere il confronto con la Nato in uno scontro in Europa centrale. Nella realtà, è impantanata da un mese abbondante a causa della resistenza di un esercito a cui la Nato sta solo dando armi leggere e informazioni di intelligence.
Resta da capire come mai in Italia vi sia così tanta difficoltà a prendere atto della figuraccia militare russa. A che pro? La risposta non deve seguire il solito semplicistico e marxisteggiante argomento "follow the money". Qui i soldi non c'entrano nulla. Il problema vero è culturale. In battaglia si svela in modo inequivocabile se un sistema politico, in questo caso addirittura un'intera cultura, è sana o malata. Come scriveva lo storico miliare Victor Davis Hanson in "Massacri e cultura":
"La storia militare non deve mai prescindere dal suo tragico evento clou, l'uccisione di esseri umani, che trova la sua piena realizzazione solo nella battaglia. A determinare se dopo l'ora fatale del combattimento migliaia di giovani, in gran parte innocenti, saranno vivi o a brandelli, è la cultura entro la quale si muovono gli eserciti".
In che cultura si muove un esercito che manda colonne di carri armati, manovrati da ragazzi di leva, a finire nelle imboscate della fanteria ucraina? Che cultura ispira piloti che sganciano bombe su coordinate dettate dal comando, senza neppure sapere cosa stanno colpendo (scoperta fatta grazie a piloti abbattuti e fatti prigionieri)? Che cultura ispira comandanti di unità corazzate che eseguono ordini rigidi scritti su carta? Che cultura è quella di un corpo ufficiali che non svela ai propri soldati la natura della missione, così che quando vengono catturati o uccisi in Ucraina non sapevano di essere in guerra? E in casa loro non sanno neppure dove siano finiti, considerando che è persino proibito parlare di "guerra"?
La cultura che sta producendo questa vergognosa performance è il prodotto di un regime autoritario che non si fida dei propri sudditi e che si nutre di menzogne, oltre a diffonderle a piene mani. Nessuno può esprimere dubbi a Putin, perché tutti sono terrorizzati: basti vedere come è stato trattato il direttore dei servizi segreti esteri, in una video pubblicato online, poco prima della guerra. E chissà cosa succede, a tutti i livelli, lontano dalle telecamere. Nessuno può mettere in discussione gli ordini.
29 MAR 2022 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6963
IL PIU' GROSSO PROBLEMA PER L'UCRAINA NON E' PUTIN, MA BIDEN di Antonio Socci
È pressoché impossibile trovare qualche statista che abbia collezionato una serie di gaffe come l'attuale presidente americano Joe Biden.
Gli infortuni sono cominciati fin all'inizio del suo mandato e talvolta hanno avuto aspetti comici (e umanamente comprensibili) come la flatulenza sfuggita - secondo il Daily Mail - davanti al principe Carlo e a Camilla alla Cop26 di Glasgow (dove si discuteva di emissioni nocive nell'atmosfera).
O come quando - durante un discorso in cui fissava palesemente il gobbo - ha letto pure le parole tra parentesi che non doveva leggere. O quando ha detto che "Putin potrà anche circondare Kiev, ma non potrà mai conquistare i cuori e le anime del popolo iraniano".
Ma con la guerra Russia/Ucraina la questione si è fatta drammatica. Ora ogni volta che Biden apre bocca ci avvicina alla terza guerra mondiale. Mentre tutti cercano di spegnere l'incendio, Biden, parlando a Varsavia, sabato, ha visto bene di alimentarlo con una cascata di benzina definendo Putin "un macellaio" (dopo averlo chiamato "assassino" e "criminale di guerra").
BIDEN IMBARAZZANTE
Questo linguaggio incendiario, del tutto fuori dai canoni, rende molto arduo qualsiasi tentativo di dialogo e trattativa con Mosca. Ma come se non bastasse Biden ha pure aggiunto che Putin "non può rimanere al potere".
Immediatamente è arrivata una correzione da un funzionario della Casa Bianca il quale ha precisato che il presidente "non stava parlando" di un "cambio di governo" in Russia. Una smentita clamorosa da cui si ricava la convinzione che a Washington non siano in grado di controllare la situazione, oltretutto in un momento così drammatico.
È la classica toppa peggiore del buco. Del resto Biden ha dichiarato apertis verbis quello che era già chiaro dai comportamenti, ovvero che gli americani non lavorano per la pace in Ucraina, ma soffiano sul fuoco e spediscono armi perché vogliono che la guerra prosegua e la Russia si impantani: cioè usano l'Ucraina per abbattere Putin (a spese degli ucraini e degli europei le cui economie saranno devastate).
L'autogol è doppio perché Biden ha apertamente confessato che vuole fare a Mosca esattamente quello che Putin voleva fare a Kiev: rovesciare il governo. E gli Stati Uniti hanno una certa esperienza nell'andare a rovesciare governi a loro sgraditi (come pure nel bombardare altri paesi).
La sortita di Biden - che voleva resuscitare il disastroso fantasma dello "scontro di civiltà" con cui gli americani hanno portato guerre e devastazioni in tante zone del mondo - ha sconcertato molte cancellerie e ha costretto un membro della Nato come la Turchia (importantissimo in quella regione) a prendere le distanze.
Il portavoce di Erdogan, Ibrahim Kalin, ha dichiarato ieri: "Se tutti bruciano i ponti con la Russia chi parlerà con loro alla fine della giornata?". In pratica ha spiegato che con il metodo Biden si perde ogni speranza di negoziato che metta fine alla guerra.
UNA PROSPETTIVA AGGHIACCIANTE
Già prima era stato il presidente francese a prendere le distanze. Macron ha detto che non userebbe il linguaggio di Biden e ha aggiunto che, se si vuole raggiungere un cessate il fuoco, non si deve alimentare "una escalation né di parole né di azioni".
Che è esattamente quello che Biden sta facendo. Del resto - secondo il Wall Street Journal - fonti interne dell'amministrazione Usa sostengono che, nel contesto della guerra in Ucraina, la Casa Bianca adesso prevede addirittura il "first nuclear strike", cioè "l'attacco nucleare preventivo" in "circostanze estreme".
Una prospettiva agghiacciante che Biden, in campagna elettorale, aveva sempre rifiutato.
Peraltro questo atteggiamento incendiario contraddice le considerazioni del Pentagono sul conflitto in corso. Newsweek ha rivelato che, secondo gli analisti del governo Usa, in realtà Putin sta facendo una guerra a bassa intensità: "la quasi totalità dei missili lanciati dalla Russia hanno colpito obiettivi militari" scrive il generale Fabio Mini. Inoltre "nei primi 24 giorni di conflitto" aggiunge Mini "la Russia ha effettuato 1400 sortite di attacco aereo e lanciato quasi 1000 missili (meno di quanto gli Usa abbiano fatto in un solo giorno durante la guerra del 2003 in Iraq)".
Dunque, per quanto crudele e orribile come ogni guerra, potrebbe essere molto peggiore. Si è capito che la Russia non punta alla distruzione dell'Ucraina. Questo dovrebbe indurre a ricercare spazi di negoziato. Ma Biden non l'ha mai fatto.
C'è chi ritiene che stia cavalcando questo conflitto a fini interni, in vista delle elezioni di metà mandato. Ma se è così il risultato è disastroso perché da gennaio a marzo gli americani che lo approvano sono passati dal 43 al 40%, mentre quelli che lo bocciano dal 53 al 55%.
E soprattutto sette su dieci hanno scarsa fiducia sulla sua capacità di gestire la crisi ucraina e otto su dieci ritengono che questa guerra provocherà l'aumento della benzina e potrebbe portare a un conflitto nucleare.
D'altronde gli errori di Biden - finora subiti passivamente dalla Ue - rischiano di far nascere un asse Russia-Cina-India che a breve potrebbe pure diventare egemone nel mondo.
Nota di BastaBugie: Stefano Magni nell'articolo seguente dal titolo "Come la guerra in Ucraina agita le acque in Asia" spiega perché si sono create le condizioni per lo scoppio di nuovi conflitti. Compreso la recrudescenza di alcuni dei conflitti più duraturi.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 29 marzo 2022:
L'invasione russa dell'Ucraina agita le acque internazionali e rischia di creare le condizioni per lo scoppio di nuovi conflitti. In quest'ultimo "tranquillo weekend di paura", l'Asia, dal Mar Rosso al Mar Giallo, ha assistito alla recrudescenza di alcuni dei conflitti più duraturi della storia contemporanea: Yemen, Nagorno-Karabakh e Corea. In tutti i casi, si tratta di tensioni che scoppiano direttamente o indirettamente a causa del conflitto ucraino.
La Corea del Nord, il 24 marzo, ha lanciato un missile balistico intercontinentale per la prima volta dal 2017. L'ordigno, che secondo fonti sudcoreane è un Hwasong-17, ha compiuto un volo di un migliaio di chilometri, innalzandosi di 6mila chilometri e andandosi a inabissare nelle acque di zona economica esclusiva del Giappone. Secondo i calcoli, dovrebbe essere in grado di raggiungere il territorio statunitense. Dopo i tre lanci (di cui due riusciti) di fine febbraio e inizio marzo, sia Tokyo che Seul hanno avuto la conferma di quel che temevano: si trattava di preparativi per il lancio di un missile balistico intercontinentale. Cinque anni fa, Kim Jong-un, dopo i colloqui diretti con l'allora presidente Donald Trump avevano proclamato una moratoria sui test missilistici a lungo raggio e finora l'avevano rispettata. Ora gli esperti si dividono sui motivi di un gesto di sfida così esplicito. Potrebbe essere un messaggio lanciato al nuovo presidente sudcoreano, Yoon Suk-yeol, un conservatore che promette una politica più dura nei confronti del regime del Nord.
Nel Caucaso meridionale, il 25 marzo si è di nuovo verificato uno scontro fra truppe armene del Nagorno-Karabakh e truppe azere. Gli azeri sono entrati nell'area controllata dalle forze di interposizione russe ed hanno aperto il fuoco contro gli armeni, uccidendone 3 e ferendone 14. I peace-keepers russi presidiano i nuovi confini (ridotti, dopo la guerra del 2020) e il corridoio di terra che unisce l'Armenia al Nagorno-Karabakh, regione a maggioranza armena incastonata nel mezzo dell'Azerbaigian, teatro di uno scontro armato che dura dal 1988, da prima ancora dell'indipendenza delle due nazioni caucasiche. Ora i russi sono accusati dal governo armeno di non aver fatto abbastanza per prevenire lo scontro a fuoco. Il premier armeno Nikol Pashinian, è volato a Mosca per consultarsi con Vladimir Putin, per "discutere della situazione creata dall'invasione, da parte di truppe azere, della zona di responsabilità delle forze di pace russe nel Nagorno-Karabakh". Le autorità del Nagorno-Karabakh, fra l'altro, denunciano un embargo sul gas imposto loro dall'Azerbaigian. Embargo che il governo di Baku nega, la cui versione ufficiale parla di lavori di riparazione ai gasdotti.
Il 26 marzo le milizie sciite Houthi, armate dall'Iran, impegnate dal 2014 contro il governo dello Yemen e la coalizione di Paesi sunniti (a guida saudita) che lo sostengono, hanno lanciato missili contro un deposito petrolifero a Jeddah, in Arabia Saudita. Alte colonne di fumo nero si sono levate in cielo, proprio mentre la città portuale del Mar Rosso si preparava ad accogliere il Gran Premio di Formula 1. La competizione si è tenuta regolarmente, ma la paura era tanta. La rappresaglia saudita, tardi, ma è arrivata: ieri, l'aviazione del regno arabo ha colpito alcuni bersagli di Sanaa, la capitale dello Yemen, sotto il controllo degli Houthi.
Tutte queste tensioni sono legate, direttamente o indirettamente, alla guerra in Ucraina. Gli Houthi filo-iraniani sono entrati in azione, in modo spettacolare e in una città che, per il Gran Premio era sotto gli occhi di tutto il mondo, per almeno due motivi: il primo è il vertice del Negev, che si è tenuto ieri, fra Israele e i Paesi arabi sunniti del Golfo, dunque gli Houthi, che fanno parte dello schieramento opposto, hanno voluto lanciare un segnale forte. Il secondo è l'Iran, che sta continuando a negoziare per un nuovo accordo sul suo programma nucleare e vuole alzare la posta in gioco. Ma lo fa sapendo, soprattutto, che gli Usa sono distratti dalla guerra in Ucraina, dalla tensione con la Russia (alleata e protettrice dell'Iran) e quindi dagli occidentali si possono estorcere condizioni molto migliori. Perché, mai in questo periodo, gli Usa sono stati così disposti a fare concessioni al di fuori del teatro di crisi europeo.
15 MAR 2022 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6928
LO ''STRANO'' FANATISMO BELLICO DEL CORRIERE DELLA SERA NELLA GUERRA IN UCRAINA di Antonio Socci
Come ha scritto Tomaso Montanari, un intellettuale di sinistra, è tragicomico vedere "ex comunisti, operaisti, esponenti di Lotta Continua" che, per far dimenticare il loro passato, oggi sull'Ucraina sono "passati all'occidentalismo fanatico". Sembrano Luttwak.
La devozione alla Casa Bianca, per alcuni ex, è granitica come ieri quella del Pci verso il Cremlino rosso.
Non pensano all'interesse degli europei (italiani compresi) i quali non vogliono sprofondare in un guerra duratura e nella catastrofe economica. Loro sognano di abbattere Putin (come vorrebbe Biden).
Un esempio? Il Corriere della sera. Da un po' è diventato "l'Unità del terzo millennio": vengono infatti dall'Unità sia il direttore, sia i principali editorialisti come Walter Veltroni e Antonio Polito (Paolo Mieli viene addirittura da "Potere operaio"…).
L'editoriale di ieri, firmato da Polito, aveva un titolo militaresco: "Il fronte interno". Calzato gagliardamente l'elmetto degli artiglieri da salotto, Polito inizia stentoreo: "Il 'partito della resa' ha gettato la maschera. È ancora minoritario, ma punta ormai al bersaglio grosso: portare l'Italia nel campo di Mosca, confermando così l'antico pregiudizio per cui non finiamo mai una guerra dalla parte in cui l'abbiamo cominciata".
Qualcuno dovrebbe informare Polito che l'Italia non è entrata in guerra (un piccolo dettaglio). Ma il virile richiamo politesco fa ricordare un triste passato (che speriamo non torni).
Era il giugno 1940 e la prima pagina del "Corriere della sera" quel giorno tuonava: "Popolo italiano corri alle armi! Folgorante annunzio del Duce: la guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Dalle Alpi all'Oceano Indiano un solo grido di fede e di passione: Duce! Vinceremo!".
Fu una catastrofe. Si dirà che c'era il fascismo e i giornali dovevano allinearsi. Certo, ma è un'aggravante: quando si beneficia dell'eredità di un'antica testata bisogna anche ricordarne la storia e i drammi (onori e oneri).
MANDARE ARMI PER FERMARE ARMI NON HA SENSO
E bisogna pensarci quattro volte, oggi che siamo liberi, prima di carezzare di nuovo l'idea della guerra con leggerezza, gettando benzina sulla follia incendiaria di Putin. Invece il Corriere se la prende con i panciafichisti.
È grottesco che uno che viene dall'Unità, su un giornale diretto da un collega che viene anch'egli dall'Unità, accusi chi invita Zelensky a trattare e cedere qualcosa, per mettere fine alla strage, di voler "portare l'Italia nel campo di Mosca".
Siccome Vittorio Feltri è stato il primo a prospettare (su queste colonne) tale idea, ne deriva che Feltri sarebbe uno che vuol "portare l'Italia nel campo di Mosca".
Il concetto fa già ridere così. Ma appare surreale se si pensa che è espresso da un collega che viene dall'Unità, giornale che, per la morte di Stalin, aveva titolato: "Stalin è morto. Gloria eterna all'uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell'umanità".
Forse un minimo senso del ridicolo e del tragico aiuterebbe Polito e i colleghi del Corriere a ritrovare quella saggia moderazione che si addice a un giornale liberale e borghese.
Ieri anche il premier israeliano Bennet, a quanto pare, ha suggerito al leader ucraino ciò che Feltri ha scritto giorni fa: trattare e cedere qualcosa per salvare la vita della sua gente e risparmiare loro tante sofferenze. Anche il suo è da ritenere un "sostegno esplicito al tiranno"?
Sempre sul Corriere della sera, Paolo Mieli se l'è presa con chi dice che non bisogna prolungare la carneficina mandando armi all'Ucraina, ma sarebbe meglio trattare con Putin. Per lui questo è "pacifismo cinico". Però anche una testimone della Shoah come Edith Bruck ha detto: "Mandare armi per fermare armi non ha senso".
Mieli e compagni propongono di mandare armi pure in decine di conflitti che ci sono nel mondo? O quei morti valgono meno? Certi bollori umanitari (a intermittenza) indicano nobiltà o fanatismo guerrafondaio? Perché sono cinici quelli che vorrebbero trattare salvando vite?
NON È MORALE IL MORALISMO DELL'AVVENTURA
C'è una famosa pagina di Joseph Ratzinger che dice il contrario facendo proprio l'elogio del compromesso: "essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l'impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo, limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell'umanità dell'uomo. Non è morale il moralismo dell'avventura… Non l'assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell'attività politica".
Gesù stesso nel Vangelo fa un esempio: "quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace" (Lc 14, 31-32).
Se il leader ucraino avesse fatto subito così avrebbe scongiurato una tragedia. Ora più passano i giorni (più sono i morti) e più dovrà concedere. Il suo imperativo dovrebbe essere anzitutto salvare vite di ucraini, evitare ulteriori distruzioni e risparmiare sofferenze ad altri popoli, come il nostro. Le ricadute economiche di questo conflitto infatti sono già disastrose e in seguito saranno addirittura catastrofiche.
Ma ovviamente colpiscono soprattutto la gente comune già provata da due anni di pandemia. Assai meno gli editorialisti del Corriere che infatti giudicano meschini i media che si concentrano "sulla benzina piuttosto che sull'Ucraina".
Loro hanno sublimi ideali. Delle bollette o del prezzo dei generi alimentari che raddoppia se ne fregano e dicono agli italiani, già provatissimi, che devono sacrificarsi ancora di più. Per l'Ucraina.
Ma dovrebbero dire: per le idee dei governanti ucraini. Perché l'interesse del popolo ucraino in realtà coincide con quello degli italiani: è far cessare la guerra.
Nota di BastaBugie: Riccardo Cascioli nell'articolo seguente dal titolo "Le figuracce di Salvini? C'è ben di peggio" commenta la figuraccia rimediata da Salvini in Polonia, ma facendo notare che questo è solo l'ultimo episodio di una perdita totale di credibilità dell'Italia all'estero. Sull'Ucraina Draghi e Di Maio hanno subito di peggio.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 10 marzo 2022:
La pessima figura di Matteo Salvini in Polonia è solo l'ultimo episodio di una saga in cui l'Italia, fuori e dentro i confini nazionali, prende schiaffi da chiunque. Salvini è stato umiliato dal sindaco di una piccola città polacca, ai confini con l'Ucraina, che ha rifiutato di riceverlo sventolandogli sotto il naso la t-shirt con l'immagine di Putin che il leader della Lega aveva indossato un tempo. Certamente quel sindaco sarà stato imbeccato dal solito giornalista o fotografo italiano militante, secondo la squallida tradizione italiana per cui si va all'estero per combattere le battaglia politiche e personali nostrane. Ma ciò non toglie la sprovvedutezza con cui un leader della maggioranza di governo prepara una missione all'estero (anche la scelta di uno staff evidentemente incapace è sua responsabilità), pensando soprattutto alla sua immagine in patria e finendo per danneggiarla insieme a quella dell'Italia tutta.
Ma quello di Salvini, come dicevamo, è solo un episodio e certamente non il più grave, visto che la crisi in Ucraina ha fatto emergere con chiarezza lo stato comatoso della nostra credibilità politica all'estero. Ha cominciato colui che da noi è venerato come il Salvatore della Patria, il presidente del Consiglio Mario Draghi, sbertucciato prima da Mosca e poi da Kiev. Il 17 febbraio era stata annunciata con enfasi la sua missione a Mosca per favorire un incontro tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente americano Joe Biden; Putin gli aveva fatto credere di essere disposto a riceverlo ma prima che Draghi potesse salire su un aereo alla volta di Mosca, le truppe russe erano già entrate in Ucraina il 24 febbraio. Ma non bastava l'umiliazione subita da Putin, Draghi se l'è cercata poche ore dopo anche con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: nel suo commosso discorso alla Camera per riferire dell'invasione dell'Ucraina, il presidente del Consiglio ha concluso dicendo che aveva un appuntamento telefonico con Zelensky alle 9.30 ma lui «non era più disponibile»: una frase infelice che sembrava suggerire una mancanza o uno sgarbo del presidente ucraino. Che infatti si è subito reso disponibile su twitter: «Oggi alle 10:30 agli ingressi di Chernihiv, Hostomel e Melitopol ci sono stati pesanti combattimenti. Le persone sono morte. La prossima volta cercherò di spostare l'agenda di guerra per parlare con Mario Draghi ad un'ora precisa».
E se Draghi, che pure un curriculum internazionale ce l'ha, viene trattato così, figuriamoci il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che nel suo curriculum può vantare al massimo le trasferte al seguito del Napoli. E infatti si è preso uno schiaffo pubblico dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov. Dopo che, poche ore prima dell'invasione, Di Maio ha avuto la brillante idea di dichiarare che non ci sarebbero stati nuovi incontri con i vertici russi se prima non si fosse abbassata la tensione, Lavrov ha avuto buon gioco a dichiarare che quella di Di Maio è «una strana idea di diplomazia», che «è stata creata per risolvere situazioni di conflitto e alleviare la tensione, e non per viaggi a vuoto in giro per i Paesi e degustare piatti esotici a ricevimenti di gala»
22 FEB 2022 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6906
L'EROISMO DEI SACERDOTI DI IERI E DI OGGI di Antonio Socci
Il sacerdozio cattolico è sotto attacco: per gli scandali e certe campagne mediatiche, ma anche per le pressioni del Sinodo tedesco e per la crisi delle vocazioni. [...]
Fra l'altro è il centenario della nascita di un grande sacerdote, don Luigi Giussani, che proprio negli anni rivoluzionari del '68, in cui la Chiesa sembrava alla fine, ha fatto innamorare di Gesù migliaia di giovani, sottraendoli all'inganno delle ideologie e incidendo sulla storia del nostro Paese e nella storia della Chiesa. [...]
Ci siamo abituati alla presenza dei preti, sappiamo che a loro tutti possono ricorrere per trovare misericordia, ascolto e aiuto. Ma anche per trovare ragioni di vita, sapienza e luce. Lo diamo per scontato, senza nessuna gratitudine. Come se fosse normale che ci sia chi rinuncia alla propria vita per gli altri.
EROISMO SCONOSCIUTO, EPPURE STRAORDINARIO
A volte il loro è un eroismo che resta sconosciuto, perfino quando è straordinario. Chi ricorda, per esempio, don Giuseppe Diana?
Tutti conoscono Roberto Saviano per il suo "Gomorra". Ma pochi hanno compreso che il vero eroe di quel libro è un sacerdote cattolico: don Giuseppe Diana. Perfino il titolo viene da lui, come ha raccontato lo scrittore: "Don Giuseppe Diana in un'omelia disse: 'non rendiamo questa terra la Gomorra del Paese'. Avevo sedici anni. Il sacerdote fu ucciso dai Casalesi, io fui ispirato per scrivere il libro".
Don Diana non era un politico o uno scrittore o un personaggio pubblico, non cercava notorietà personale. Era semplicemente un sacerdote cattolico che cercava di amare il suo popolo come lo amava Gesù e si comportava da sacerdote: per questo fu ucciso nel 1994. Giovanni Paolo II ne parlò all'Angelus con parole toccanti.
Così per il palermitano don Pino Puglisi, riconosciuto beato e martire dalla Chiesa. [...]
Per tanti sacerdoti l'eroismo è la dimensione della vita, ma ci sono tanti eroismi. Spesso silenziosi e invisibili o non riconosciuti. La dedizione alla propria missione, che induce a rinunciare a tutto per amore di Cristo e dei fratelli, è eroismo anche quando non c'è il martirio.
Ma in fondo oggi è eroica la stessa scelta del sacerdozio. Un giovane, in genere laureato, che rinuncia ad avere una sua famiglia, una carriera professionale, una propria vita, per servire gli altri, per servire una comunità, per amore di Cristo, fa una scelta eroica.
Ancora di più oggi che il prete non è - come nel passato - una figura socialmente rispettata, ma spesso è una categoria irrisa. Perfino disprezzata.
LA SUSCETTIBILITÀ UNIVERSALE
Eppure viviamo nel tempo della suscettibilità universale. "Basta un niente: una canzone di cinquant'anni fa, un film ambientato a metà dell'Ottocento, una battuta di oggi - eccola che arriva, l'indignazione di giornata, passatempo mondiale, monopolizzatrice delle conversazioni e degli umori".
Guia Soncini, nel suo libro "L'era della suscettibilità" fotografa bene il momento attuale, in cui domina per tutti il diritto di offendersi e il dovere di indignarsi. Basta sbagliare anche solo un pronome e si finisce alla gogna. "Nessun misgendering (chiamare qualcuno con pronomi che non sono quelli che si è scelto) resterà impunito", scrive sarcasticamente l'autrice parlando dell'ideologia woke.
Ma c'è almeno una categoria umana che sembra si possa bersagliare liberamente, quantomeno con l'ironia e le malignità, senza che nessuno si indigni e senza che neppure i bersagliati si difendano: i preti.
Non lo si nota perché nessuno se ne lamenta, sebbene per loro sia doloroso: nella Chiesa non è praticato il vittimismo (non lo si pratica nemmeno per i tanti casi di persecuzione e martirio - documentati nel mondo - che fanno dei cristiani probabilmente il gruppo umano più perseguitato). Specialità della casa, casomai, è il "mea culpa" non il vittimismo.
Ma chi osserva con attenzione i media e la rete se ne rende conto. In genere (e da tempo) i cattolici e la Chiesa, nel loro insieme, sono bersaglio di irrisione o di "provocazioni culturali", che naturalmente non si fanno nei confronti di altre religioni.
Ma in particolare per la categoria dei preti ultimamente prevale una certa durezza e un'ingiusta generalizzazione per gli scandali relativi alla pedofilia. Come se questa terribile piaga riguardasse in modo specifico i sacerdoti cattolici. [...]
Al di là della cronaca allora bisognerebbe comprendere cos'è il sacerdozio nella vita degli uomini e nella storia del mondo.
Giorni fa mi trovavo nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Era deserta. Guardavo gli stupendi capolavori dipinti sulle pareti e d'improvviso mi accorsi che qualcuno c'era: una luce accesa in un confessionale e un frate in attesa.
Ecco la Chiesa: è il "Padre misericordioso" della parabola evangelica che sta sulla soglia e freme in attesa di poter perdonare il figlio perduto, qualunque cosa abbia fatto. Un immenso abbraccio di tutte le miserie umane. E' un mare di misericordia per tutti.
Lì vicino è esposto il saio di frate Francesco. Da mendicante. Francesco era diacono (il primo grado del sacramento dell'ordine) e baciava le mani di qualunque prete, per quanto sgangherato, perché quelle mani - diceva - consacrano il Corpo e sangue di Cristo. Poveri uomini che salvano il mondo.
Del resto portava il saio francescano anche il primo sacerdote stigmatizzato come lui, un grande santo del Novecento: padre Pio da Pietrelcina.
4 JAN 2022 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6857
IL CRISTIANESIMO E' IL VACCINO CONTRO OGNI IDOLATRIA di Antonio Socci
Piergiorgio Odifreddi ama la battuta ad effetto e il paradosso. Repubblica (22/12) riferisce queste sue parole: "Quasi tutti siamo atei nei confronti di quasi tutte le fedi. Chi si definisce credente è ateo in tutte le religioni tranne la sua".
In effetti la frase ha una sua divertente logica. Potremmo aggiungere scherzosamente che - allo stesso modo - nessun matematico crede veramente ai numeri perché ritiene che due più due faccia solo quattro ed esclude tutti gli altri numeri.
Del resto Odifreddi non è originale perché i cristiani del I e del II secolo effettivamente furono proprio accusati di ateismo (subendo persecuzioni) in quanto non riconoscevano gli dèi pagani e la divinità dell'imperatore.
È questo loro atteggiamento - che peraltro andava di pari passo con il rispetto delle autorità civili e dello Stato - che, pian piano, portò alla progressiva de-sacralizzazione del potere imperiale.
Con buona pace dei laicisti come Odifreddi, la tanto celebrata "laicità" è stata introdotta nel mondo proprio da quel Gesù Cristo che insegnò a distinguere ciò che è dovuto a Dio da ciò che è dovuto a Cesare e che proclamò: "il mio Regno non è di questo mondo" (Gv 18,36).
Non solo. Israele ricevette anticamente la rivelazione dell'assoluta trascendenza di Dio. Dunque, in base al racconto biblico della creazione, tramandato nella Genesi, in cui Dio dà all'uomo il dominio del creato, il cristianesimo si diffonde sulla terra de-sacralizzando anche il cosmo, a cominciare dal sole, dalla luna e dagli astri e così apre la strada alla conoscenza razionale del mondo e quindi alla scienza.
Lo ha spiegato benissimo Joseph Ratzinger in un piccolo libro di molti anni fa: "Creazione e peccato" (Edizioni paoline). Dove scrive: "Agli uomini di allora doveva apparire un'enorme empietà dichiarare le grandi divinità del sole e della luna due lampade per misurare il tempo. È questo l'ardimento, il realismo della fede, che in polemica con i miti pagani fa brillare la luce della verità, mostrando che il mondo non è l'arena dei demoni, bensì proviene dalla ragione, dalla ragione di Dio, e poggia sulla parola di Dio. In tal modo il racconto della creazione si rivela come l''illuminismo' decisivo della storia, l'esodo dalle paure che avevano attanagliato l'uomo. Significa la consegna del mondo alla ragione, il riconoscimento della sua razionalità e libertà. Dimostra di essere il vero illuminismo anche per il fatto che àncora la ragione umana al fondamento originario della ragione creatrice di Dio, per mantenerla così nella verità e nell'amore, senza i quali l'illuminismo diventa sregolato e alla fine stolto".
Il cristianesimo è storicamente il vaccino contro ogni idolatria: del potere o del mondo.
A tal proposito, il '900 ha dimostrato che proprio i totalitarismi che fanno professione di ateismo sono i più idolatri. Strappano agli uomini l'unico Padre e impongono loro dei padroni come dèi.
Nel regime più ateo del pianeta, quello comunista nord-coreano, Kim Il-sung, dittatore dal 1948 alla morte, nel 1994, è stato proclamato nella Costituzione "presidente eterno".
Nel 1994 prese il potere il figlio Kim Jong-il che lo detenne fino alla morte, il 17 dicembre 2011. Oggi è al potere suo figlio Kim Jong-un e, in questi giorni, ricorrendo il decennale del decesso del padre, ha imposto 11 giorni di lutto nazionale durante i quali sarà proibito ridere. E pure piangere. Anche se muore un familiare non è consentito né piangere né tumularlo. Chi trasgredisce finisce male.
Nota di BastaBugie: Stefano Magni nell'articolo seguente dal titolo "Kim Jong-un, 10 anni di dittatura. Vietato festeggiare" parla di quello che accade in Corea del Nord sotto la dittatura comunista. E per il popolo nordcoreano c'è veramente poco da festeggiare.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 18-12-2021:
Dieci di anni di Kim Jong-un e in Corea del Nord è vietato ridere, o anche solo sorridere in pubblico. Il 17 dicembre, ieri, per chi legge, era l'anniversario della morte di Kim Jong-il, padre dell'attuale dittatore nordcoreano. È anche un periodo di "festa" teoricamente, visto che alla morte del padre è seguita la successione di Kim Jong-un, ma il tetro protocollo cerimoniale del regime comunista preferisce il lutto. Per 11 giorni filati, dieci anni dopo quel fatidico 2011, la lista dei divieti è lunghissima. Oltre che vietato sorridere o ridere in pubblico, saranno vietati i matrimoni, i funerali, i compleanni, non si potranno bere alcolici nei locali. La pena è l'arresto e si può arrivare fino alla pena di morte.
C'è obiettivamente qualcosa da festeggiare in questi dieci anni di dittatura? Kim Jong-un ha inaugurato il suo "regno" con un'ondata di epurazioni che hanno colpito anche suoi parenti prossimi. E per lanciare segnali di sfida all'estero, ha ripreso ben presto sia i test nucleari che gli esperimenti di missili balistici intercontinentali, entrambi sotto sanzioni Onu. Nonostante tutto, ha anche cercato di mostrarsi come un leader moderno e più rispettoso dei diritti umani rispetto ai suoi predecessori. In dieci anni si sono registrate "solo" 27 esecuzioni in pubblico. L'elenco dei reati per cui quelle persone sono state fucilate include anche la visione e la distribuzione clandestina di video sudcoreani, come è avvenuto in almeno sette casi. Il carattere bagatellare di questi reati capitali induce a sospettare che le esecuzioni capitali siano state molte di più, anche se celate agli occhi del pubblico.
Quel che la Corea del Nord continua a negare è l'esistenza dei campi di concentramento, mai chiusi sin dai tempi di Stalin. L'arcipelago Gulag nordcoreano è stato documentato sia da foto satellitari che da testimonianze in presa diretta, sia di ex guardie che di ex prigionieri, raccolte dall'Ufficio dell'Onu per i Diritti Umani. I racconti riguardano anche il periodo che va dal 2012 al 2019, dunque l'era di Kim Jong-un. Lo scenario è simile a quello raccontato da Solzhenitsin sulla sua esperienza nel Gulag staliniano. I prigionieri sono costretti a lavorare in condizioni disumane, in alcuni racconti sono direttamente impiegati al posto delle bestie da soma per trainare carri e aratri. La mortalità è elevatissima, anche perché le punizioni fisiche sono frequenti e provocano lesioni gravi, mutilazioni e spesso anche la morte dei prigionieri.
Kim Jong-un, che ha studiato all'estero (in Svizzera) ha promosso di sé l'immagine di un leader moderno intento a riformare economicamente il Paese. Ma dieci anni dopo, la situazione è precipitata e lo stesso dittatore ha dovuto ammettere, la primavera scorsa, che il Paese sta attraversando un nuovo "arduo marzo", il termine con cui è popolarmente conosciuta la grande carestia degli anni 90. La nuova crisi è stata innescata soprattutto dalla chiusura di tutte le frontiere, compresa quella con la Cina, per evitare l'arrivo del Covid-19. Dopo aver fermato tutte le importazioni, la popolazione fa la fame. Testimonianze raccolte da Open Doors, riferiscono di catasti del cibo e fabbriche alimentari circondate da filo spinato e presidiate da guardie armate, per impedire furti di cibo. La gente se la cava come può, anche mangiando erbe selvatiche. Se è vero che la situazione è precipitata a causa della chiusura delle frontiere, oltre che di una serie di tempeste e altri fattori naturali, l'agricoltura nordcoreana dà ancora una pessima prova di sé, dimostrando di essere ancora in balìa degli eventi naturali. Non è cambiato, poi, il criterio di distribuzione del cibo: prima i militari, poi il resto della popolazione. E nonostante ciò, il militare che nel 2017 riuscì a defezionare in Corea del Sud, ferito dai suoi ex commilitoni durante la fuga, venne trovato dai medici sudcoreani così malnutrito e infestato da parassiti da diventare un caso studio.
Sempre secondo Open Doors, la Corea del Nord è, per il ventesimo anno di fila, il Paese al mondo in cui i cristiani patiscono la persecuzione più estrema. «Essere individuati come cristiani è una sentenza di morte in Corea del Nord. Se non si viene uccisi all'istante, si viene deportati in un campo di lavoro per crimini politici. Queste prigioni disumane impongono condizioni orribili e si pensa che pochi fedeli ne escano vivi», recita l'inizio del rapporto sulla persecuzione dei cristiani nel 2021. Ufficialmente la religione è libera e, oltre a numerosi templi buddisti, a Pyongyang si possono trovare anche cinque chiese cristiane, tre protestanti, una ortodossa e una cattolica (la cattedrale di Changchung). Eppure i cristiani nordcoreani, stimati in circa 400mila, devono vivere nell'ombra, non possono praticare il culto né in pubblico, né in privato. Dai 50mila ai 70mila cristiani sono attualmente internati nei campi di concentramento. La Corea del Nord, sin dai tempi di Stalin, che insediò al potere Kim Il Sung (nonno di Kim Jong-un) nel 1948, è uno Stato ufficialmente ateo. O meglio: neopagano, perché i suoi leader, ormai una dinastia intera, sono venerati come se fossero dei. E per questo è vietato anche solo sorridere nei giorni in cui cade l'anniversario della morte dell'ultimo di questi dei.
16 NOV 2021 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6784
LE FROTTOLE DI ROMANO PRODI SULL'EUROPA di Antonio Socci
"Le immagini raccontano l'Europa" è un libro di Romano Prodi in cui le foto illustrano la storia dal 1945 ad oggi.
"Repubblica" (9/11) anticipa il testo dell'ex presidente della Commissione europea. La sua narrazione ovviamente gronda retorica e confonde indebitamente la UE con l'Europa.
Inoltre l'autore rivendica "le nostre radici" che "si fondano prima nel mondo greco-romano e, successivamente, nel cristianesimo". Secondo Prodi furono "queste nostre radici" a permettere "la nascita delle grandi università" che hanno prodotto "un primato intellettuale e scientifico" da cui "nello stesso tempo" è germogliata "un'identità che possiamo davvero chiamare europea".
Viene da chiedersi perché si possa orgogliosamente rivendicare un'"identità europea", mentre sembra disdicevole parlare - per esempio - di identità italiana (è ritenuto "sovranismo").
W LA PACE
Prodi torna poi a ripetere il ritornello propagandistico della UE: "solo l'unità politica poteva garantirci la pace permettendoci di conservare le nostre radici".
Ma è così? Intanto la UE - che non comprende tutti gli stati e i popoli europei - nasce negli anni Novanta e ha come connotato proprio lo strappo da quelle radici cristiane esaltate da Prodi: fu evidente nella discussione sulla Costituzione europea e ancor più lo si vede nell'orientamento ideologico delle sue scelte, sempre "politically correct".
Quanto al "primo obiettivo", cioè la pace, secondo Prodi "è stato pienamente raggiunto: da oltre 75 anni nessun conflitto armato ha insanguinato il suolo di alcuno fra i Paesi europei che cercavano fra di loro un accordo".
"Da 75 anni" significa dal 1945-46. È inspiegabile come si possa ripetere per propaganda un argomento così infondato: è noto infatti che l'Unione Europea è nata con il Trattato di Maastricht del 1992.
Ma soprattutto va detto che, dal 1945 fino al crollo del Muro di Berlino (1989), la "pace" in Europa fu dovuta a Yalta, alla "guerra fredda" ovvero all'equilibrio del terrore fra Usa e Urss.
Nel 1957 fu firmato il Trattato di Roma che istituì, su spinta americana, la "Comunità economica europea" fra sei stati dell'Europa occidentale, per "la scelta statunitense" scrive Limes "di non evacuare la porzione di Europa controllata al termine della seconda guerra mondiale per impedire che venisse assoggettata da Mosca: Stalin è all'origine di Nato e Comunità europee (poi Ue) quanto Truman, con i ‘padri fondatori' europei in veste ancillare".
IL RUOLO DELLA GERMANIA
La pace mantenuta da Usa e Urss si fondava proprio sulla sottomissione la spartizione dell'Europa in due sfere d'influenza: in particolare sulla divisione in due della Germania che era stata all'origine della tragedia bellica mondiale.
Crollata l'Urss cambia la scena geopolitica e la UE nasce nel 1992 proprio in seguito all'unificazione tedesca.
Da allora però si ripropone l'allarme preventivo lanciato da Arnold Toynbee nel suo "Civilization on trial" del 1949: se "la Germania fosse inclusa in una Unione Europea" senza Usa e Urss "diverrebbe, a lungo andare, la padrona" e tale Unione sarebbe "sotto il predominio germanico". Un grave pericolo per gli europei, secondo Toynbee.
Pure Benedetto Croce, c'informa Repubblica (10/11), scriveva su "Risorgimento liberale", addirittura nel 1944, un articolo in cui metteva in guardia dalla Germania che "in previsione della sconfitta militare" già "prepara la terza guerra mondiale".
C'è stata questa guerra? Dicono i grandi strateghi che "l'eccellenza suprema" consiste nel vincere una guerra senza l'uso della forza militare.
9 NOV 2021 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6780
COSA C'E' DIETRO IL SORPRENDENTE SUCCESSO PLANETARIO DEI MANESKIN di Antonio Socci
Massimo Gramellini sul Corriere della sera (29/10) definisce "felice mistero" il fulmineo successo mondiale dei Maneskin.
Ci sono infatti decine di cantanti italiani che hanno scritto e cantato pezzi bellissimi, che restano nella memoria di tutti. Ma perfino Vasco Rossi, ricorda Gramellini, "ha sempre fatto fatica a essere ascoltato oltre Chiasso".
Poi arrivano i Maneskin, la cui produzione artistica non è neanche paragonabile, per qualità e quantità, al repertorio di tanti nostri autori, e diventano di colpo star internazionali: addirittura sono stati scelti per aprire il concerto dei Rolling Stones a Las Vegas.
"Che cosa possiedono dunque di così speciale?". A questa domanda nessuno riesce rispondere che ciò accade per le loro canzoni. Oltretutto sono appena arrivati. E allora come nasce questo successo mondiale?
Gramellini stesso fornisce una risposta: "Per usare una parola alla moda, sono fluidi. Damiano, il cantante, è un maschio che si trucca senza perdere virilità. Victoria, la bassista, è una donna che fa la dura senza perdere femminilità. Tutti e quattro appaiono sfuggenti, nitidi eppure sfocati, non incastrabili in una definizione".
Secondo Gramellini, che sottolinea la coincidenza fra la loro "consacrazione planetaria" e la caduta del Ddl Zan nel "retrogrado" parlamento italiano, rappresentano "la normalità per i ragazzi di oggi". O quantomeno la norma che si vuole a loro insegnare.
Dunque, stando a quanto si legge sulla prima pagina del "Corriere", il successo dei Maneskin non è dovuto alle canzoni, ma all'ideologia che essi incarnano e interpretano, alla loro capacità (maggiore degli altri cantanti) di esprimere fisicamente, teatralmente, la nuova normalità, il nuovo canone della "fluidità" a cui bisogna omologarsi.
Da questo punto di vista, il loro, nel 2021, non è certo un messaggio rivoluzionario, di ribellione e disobbedienza al sistema. Ma l'esatto contrario.
Non a caso il loro trionfo è decretato da quella potente industria dello spettacolo che da anni è la chiassosa paladina planetaria di quell'ideologia, sponsorizzata dalla classe dominante.
Pier Paolo Pasolini già nel 1975 affermava che "i diritti civili hanno assunto una colorazione classista" e che su di essi si stava costruendo, un nuovo conformismo, anzi: "la certezza del conformismo".
In effetti quella è oggi l'ideologia dell'élite (la deregulation antropologica è l'altra faccia della deregulation economica).
Però non è ancora diventata senso comune maggioritario fra la gente che ha piuttosto i problemi del lavoro, dello stipendio, del progressivo impoverimento e della perdita dei "diritti sociali".
Eppure è martellante la propaganda - anche nella pubblicità - di quell'ideologia che Marco Rizzo definisce "un'arma di distrazione di massa della macchina capitalista".
Si vuole che le masse interiorizzino il codice "politicamente corretto" che non si accontenta di avere quasi il monopolio della scena, ma ormai detta legge. Non tollera dissenso manifesto. Di fronte ad esso bisogna stare tutti "zitti e buoni".
A sottolineare il clima che si è creato è stato addirittura Benedetto XVI che, in un'intervista concessa prima del 2020 a Peter Seewald per la sua biografia ("Benedetto XVI", Garzanti), alludendo all'uragano "politically correct" che sta stravolgendo l'Occidente, ha usato parole drammatiche: ha parlato addirittura di "dittatura universale di ideologie apparentemente umanistiche, contraddire le quali comporta l'esclusione dal consenso di base della società".
I pungenti commenti del giornalista Antonio Socci stimolano ad avere uno sguardo critico sulla realtà
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