
Info
La pungente penna di chi sa coniugare una profonda fede con l'insegnamento della Chiesa

Episodes & Posts
Episodes
Posts
20 MAY 2025 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8174
LA COMUNIONE SULLA MANO E' IL PEGGIOR RITO POSSIBILE (E NON E' MAI STATO FATTO COSI') di Luisella Scrosati
Forse sorprenderà molti sapere che la forma attuale di distribuzione dell'Eucaristia sulla mano non ha precedenti nella bimillenaria tradizione liturgica della Chiesa. E che invece alcuni dettagli e raccomandazioni che emergono dalle testimonianze più antiche risultano essere maggiormente in sintonia con la prassi universale della Comunione sulla lingua, più che con quella sulla mano.
Non si vuole negare che le testimonianze antiche, particolarmente quelle fino al IV secolo, indichino che la modalità di distribuzione dell'Eucaristia passava dalle mani dei fedeli, ma è singolare che questi testi si concentrino soprattutto sull'attenzione a non disperdere frammenti e sulla riverenza dovuta all'Eucaristia quando ci si comunica. Si pensi alla pressante premura con cui Tertulliano esorta alla massima cautela nel fare la Comunione: «Noi siamo angosciati che nulla, né del calice né del pane, cada a terra» (La corona del soldato, III).
Non è secondario precisare che la modalità approssimativamente descritta dagli autori delle Chiese d'Africa, come appunto Tertulliano, ma anche san Cipriano di Cartagine, in realtà non sembra essere rappresentativa di un vero e proprio rito, dal momento che ci troviamo in un contesto di persecuzione, durante il quale facilmente si sarebbero autorizzate concessioni straordinarie per permettere ai fedeli di portare nelle proprie dimore la Santa Eucaristia e potersi così comunicare.
NESSUN FRAMMENTO CADA A TERRA
Ad ogni modo, alla preoccupazione di Tertulliano fa eco quella di Origene: «Voi, che avete la consuetudine di assistere ai sacri misteri, quando ricevete il Corpo del Signore, prestate attenzione ad osservare con ogni cura e venerazione possibile che nessun frammento cada a terra e che nulla del dono consacrato vada perduto» (Omelie sull'Esodo, XIII). San Girolamo (cf. Commento ai Salmi, Salmo 147, 14) sembra parafrasare Origene. Anche la testimonianza di san Cirillo di Gerusalemme, la più citata a favore della Comunione sulla mano, è un lungo richiamo alla riverenza, all'attenzione «a non perdere nulla di esso [corpo santo]», perché «se tu ne perdi, è come se tu fossi amputato di un tuo membro» (Catechesi mistagogiche, V, 21); il rito prevedeva anche la santificazione degli occhi, fissando lo sguardo sul Pane santo, e, dettaglio di grande importanza, la mano sinistra doveva fare da trono alla destra, dove veniva poggiata la Santa Comunione.
Perché è così rilevante la precisazione? Sappiamo che la prassi odierna è quella di porre la mano destra sotto la sinistra, in modo da poter poi prendere con le dita della destra l'Ostia consacrata e portarla alla bocca. Ma l'indicazione di san Cirillo, a cui i riformatori dicono di essersi ispirati, è esattamente l'opposto. Nella modalità riferita da san Cirillo, la destra non doveva essere lasciata libera per afferrare l'Eucaristia, perché il fedele si abbassava verso le mani, facendo così un profondo inchino, e assumeva il Pane eucaristico direttamente dal palmo della mano destra, come conferma anche Teodoro di Mopsuestia (cf. Omelie catechetiche, XVI, 27). Per questo, più che di Comunione sulle mani, si dovrebbe parlare di Comunione sul palmo della mano. La prassi nuova, invece, è pensata per lasciare libera la mano destra (essendo la maggioranza delle persone destrimane), le cui dita afferrano la Particola per portarla alla bocca.
Dev'essere altresì ricordato che, per buona parte del primo millennio cristiano, sia nella Chiesa latina che in quelle d'Oriente il pane utilizzato per l'Eucaristia era un pane lievitato. Sarà a partire dal IX secolo che, nelle chiese di Gallia, subentrerà l'uso della particola sottile, decisamente più sicura quanto alla possibile perdita di briciole e più adatta alla sua deposizione direttamente sulla lingua del fedele.
PURIFICARE LE MANI
Josef A. Jungmann, analizzando le fonti antiche, ha altresì messo in luce che i fedeli, prima della preghiera liturgica, dovevano purificare le proprie mani, mediante un rito di abluzione, e concorda sull'insistente richiamo alla cura nell'assumere la santa Eucaristia da parte del fedele. È attestato anche, in alcune chiese delle Gallie, l'uso di un panno di lino, sembra soprattutto per la Comunione delle donne, di modo che l'Eucaristia non venisse a diretto contatto con le mani.
Un'attenta lettura di queste testimonianze dimostra, dunque, che la preoccupazione principale dei Padri non era minimamente quella di difendere ad oltranza la Comunione sul palmo, ma di richiamare con ogni cura a che si evitassero il più possibile le quasi inevitabili problematiche che si verificavano ricevendo il Pane eucaristico in quella modalità già diffusa in molte chiese, sebbene con dettagli diversi. I Padri avevano ben presente che briciole o frammenti di Pane consacrato potevano andare perduti e richiamavano perciò i fedeli sulla gravità di una tale eventualità. Ancora, avvertivano come pressante dovere l'esortare i fedeli ad atteggiamenti non solo di rispetto, ma anche di adorazione verso il Corpo sacramentale del Signore.
Sotto questo punto di vista, non c'è dubbio che l'uso successivo di porre l'Ostia santa direttamente sulla lingua del fedele sia stato il naturale e adeguato sviluppo per corrispondere alle preoccupazioni dei Padri. Al contrario, la proposta di introdurre la Comunione sulla mano, privata di tutti gli altri dettagli che caratterizzavano la Comunione sul palmo, costituisce non solo una brusca e non necessaria rottura di questa maturazione, ma anche l'introduzione di una modalità che ripresenta i rischi dell'uso antico, privato altresì di quegli elementi che servivano a favorire l'adorazione e il rispetto della santa Eucaristia e a ridurre il più possibile la perdita di frammenti. Insomma, il peggior rito possibile.
Nota di BastaBugie: Luisella Scrosati nell'articolo seguente dal titolo "La Comunione sulla mano e la visione distorta della Tradizione" spiega che La Chiesa, specie in ambito liturgico, ha avuto modo di mettere in guardia da due visioni distorte della Tradizione, entrambe componenti del "progressismo": l'archeologismo e la smania di cambiare.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 18 maggio 2025:
Si è visto come l'attuale modalità di ricezione della Comunione sulla mano - particola posata sulla mano sinistra, sorretta dalla destra, e utilizzo delle dita della mano destra per portare la particola alla bocca - non trovi precedenti nella storia della Chiesa. A segnare una novità è anche l'assenza di un gesto, ossia l'inchino reverenziale, che diveniva obbligatorio per il fatto che il fedele doveva chinarsi per assumere l'Eucaristia direttamente dal palmo della mano. Ancora più evidente è la preoccupazione dei Padri della Chiesa affinché nessuna briciola del Pane eucaristico andasse perduta, apprensione che non sembra costituire una priorità per molti dei nostri pastori.
Tre elementi che permettono di capire la logica patologica sottesa a molte delle riforme liturgiche post-conciliari (tra cui quella della Comunione sulla mano): una comprensione puramente materiale della Tradizione. L'affermazione potrà sorprendere, perché una certa vulgata vorrebbe che siano proprio i non meglio specificati "tradizionalisti", più di recente battezzati anche come "indietristi", ad avere una concezione fissista e stantia della Tradizione. In realtà, le cose non sono così semplici.
La Chiesa ha avuto modo di mettere in guardia da due visioni distorte della Tradizione, particolarmente in ambito liturgico. La prima è il cosiddetto archeologismo, che Pio XII, nell'enciclica Mediator Dei, definiva «eccessivo ed insano». Gli usi liturgici dei primi secoli della Chiesa sono senza dubbio da venerare, così come è di grande importanza conoscere quei riti, apprezzarli, immergersi in essi per ritrovarne ogni volta lo spirito; d'altra parte, però, il criterio dell'antichità non è di per sé garanzia di trovarsi davanti al meglio. Bisogna infatti considerare che lo Spirito Santo non ha limitato la sua azione ai soli primi secoli della Chiesa. Scriveva Pio XII: «Come, difatti, nessun cattolico di senso può rifiutare le formulazioni della dottrina cristiana composte e decretate con grande vantaggio in epoca più recente dalla Chiesa, ispirata e retta dallo Spirito Santo, per ritornare alle antiche formule dei primi Concili, o può ripudiare le leggi vigenti per ritornare alle prescrizioni delle antiche fonti del Diritto Canonico, così, quando si tratta della sacra Liturgia, non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per le mutate circostanze». Come si può vedere, il rifiuto dell'approccio archeologista si estende ai diversi domini della vita della Chiesa e non solo alla liturgia. Non si può pretendere di tagliare un albero con lo scopo di farlo ritornare alle dimensioni di quando era un piccolo arbusto.
La seconda insidia viene dalla smania di innovare, cambiare, modificare. Pio XII stigmatizzava «il temerario ardimento di coloro che di proposito introducono nuove consuetudini liturgiche o fanno rivivere riti già caduti in disuso e che non concordano con le leggi e le rubriche vigenti». Questo testo è particolarmente prezioso, perché descrive come espressione della stessa smania sia l'introduzione di nuove consuetudini sia il ripristino di riti antichi non più in uso. L'archeologismo rivela così di essere una componente del "progressismo", una sua neces
6 MAY 2025 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8153
LE SETTE PRIORITA' PER IL NUOVO PAPA di Luisella Scrosati
Archiviato il pontificato di Francesco, sono tutt'altro che naufragati i processi da lui avviati con atti, decisioni e gesti che hanno di fatto aperto nuove finestre di Overton o hanno condotto alla parziale realizzazione di quelle già aperte. Questo articolo conclusivo vuole rapidamente richiamare gli urgenti "interventi di rifacimento e manutenzione" a cui bisognerà porre mano al più presto, per riparare agli scandali contro la fede e contro la credibilità della Chiesa, alimentati in quest'ultimo pontificato.
1. NO ALLA COMUNIONE AI DIVORZIATI RISPOSATI (Amoris lætitia)
È necessaria anzitutto una chiarificazione da parte del Dicastero per la Dottrina della Fede - una volta ripulito da persone decisamente non all'altezza e dalla formazione teologica più che questionabile -, sulla deriva della Comunione ai divorziati risposati, che ripristini la disciplina corretta: non è possibile che persone che continuano a vivere more uxorio possano ricevere l'assoluzione sacramentale e accedere alla Santa Comunione.
Una modalità potrebbe essere quella di dare finalmente una risposta ai famosi Dubia del 19 settembre 2016, che si ponga come interpretazione autentica dell'esortazione post-sinodale Amoris lætitia, e correttiva della lettera del 5 settembre 2016 di papa Francesco a mons. Sergío Alfredo Fenoy. Un altro intervento dovrà portarsi sulla correzione della nuova redazione del n. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica sulla pena capitale, che appare decisamente in discontinuità con l'insegnamento tradizionale sul tema.
2. NO BENEDIZIONI AI GAY (Fiducia supplicans)
È urgente la revoca della dichiarazione Fiducia supplicans, così come del comunicato stampa del 4 gennaio 2024, firmato dal cardinale Victor Manuel Fernández e da mons. Armando Matteo. Il documento, a causa dell'assurdità e inaccettabilità delle sue affermazioni, e la chiarificazione successiva, persino peggiorativa della Dichiarazione, hanno provocato una profonda divisione all'interno della Chiesa con conferenze episcopali, e persino un intero continente, che si sono rifiutati di renderli applicativi nelle proprie zone di competenza. In nessun modo coppie caratterizzate da relazioni contrarie alla legge di Dio possono ricevere una benedizione del Signore, in nessuna forma.
3. NO AL DIACONATO FEMMINILE
Si pubblichi un documento che raccolga la parte migliore dei lavori delle diverse commissioni radunate negli anni per studiare la questione del diaconato femminile e si ribadisca in modo chiaro e definitivo l'impossibilità dell'ordinazione diaconale e presbiterale delle donne.
4. VOTO NEI SINODI AI SOLI VESCOVI
Si ripristini l'ordine gerarchico della Chiesa mediante l'attribuzione del diritto di voto nei Sinodi generali ai soli vescovi (e a eventuali altri membri, purché appartenenti almeno all'ordine presbiterale). Lo stesso avvenga nei sinodi locali. L'autorità dell'ordinario sia restituita in tutta la sua pienezza, ed anche il senso dell'episcopato. Il nuovo pontefice si troverà a dover porre mano ai criteri di selezione dei nuovi vescovi, e alla loro effettiva applicazione; la Chiesa, soprattutto in quest'ultimo decennio, ha conosciuto nomine episcopali di persone del tutto non all'altezza dell'ordine che hanno ricevuto e della missione affidata, senza le minime competenze canoniche, con una conoscenza approssimativa della dottrina, desiderosi di novità piuttosto che di solidità, e non di rado con un profilo morale che si è rivelato alquanto discutibile, quando non palesemente inaccettabile.
Appare altresì più che opportuno un intervento che interdica l'eventuale accesso di laici, uomini e donne, a quelle cariche di responsabilità nella Chiesa che devono essere destinate, per loro natura, a chi ha ricevuto l'ordine sacro dell'episcopato o del presbiterato, o che sono espressione del collegio cardinalizio, come nel caso della presidenza dei dicasteri della Curia romana.
5. RIVEDERE L'ACCORDO TRA CINA E SANTA SEDE
Si dovrà rivedere l'accordo tra Cina e Santa Sede, di recente rinnovato per altri quattro anni (fino al 2028), voluto dal cardinale Pietro Parolin (e per il quale fu decisiva la mediazione dell'ex cardinale Theodore Edgar McCarrick), del quale non sono state fatte conoscere le condizioni. Non è accettabile un compromesso che avalli la situazione attuale, con il Governo cinese che ha la facoltà di cambiare il Catechismo della Chiesa cattolica, di proibire l'iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi, di imporre l'esposizione delle immagini di Xi Jinping nelle chiese, di scegliere i vescovi, con la Santa Sede umiliata nel "dover approvare" vescovi già arbitrariamente decisi dal regime, e persino di erigere diocesi.
6. BASTA PACHAMAMA E RITO AMAZZONICO
La Chiesa ha bisogno di riprendere il proprio slancio missionario, nella consapevolezza di avere il diritto e il dovere di portare ovunque la verità del Vangelo e la grazia dei sacramenti. Emerge come particolarmente meritevole di attenzione il tema dell'inculturazione, tema pastoralmente importante, ma in nome del quale in Vaticano si è persino posta in essere una celebrazione pagana, dalla chiara connotazione ideologica, in onore della "divinità" pagana inca, la nota Pachamama. L'inculturazione non può essere concepita e realizzata come una generosa concessione agli idoli delle religioni pagane; essa è la capacità del Vangelo di vivificare una cultura, purificarla da quanto non è compatibile con la verità su Dio e sull'uomo, e condurla alla pienezza delle sue potenzialità, mediante la lenta e progressiva opera della grazia. Inculturazione è e dev'essere evangelizzazione delle culture, non metamorfosi del Vangelo e della liturgia della Chiesa che assume i connotati del paganesimo, previa superficiale "verniciata" di cristianesimo. A questo riguardo, grande attenzione dovrà essere posta alla fase finale di realizzazione del "rito amazzonico".
7. BASTA PASTORI CORROTTI
La Chiesa ha un problema enorme di pastori corrotti fin nelle midolla. Il caso Rupnik, con tutte le coperture che per decenni hanno silenziato le denunce e il dolore delle vittime, rimane in primo piano; per non parlare di altri prelati, tutt'ora in posti di grande responsabilità, con pesanti scheletri nell'armadio. Anche quanto sta emergendo in queste ore, relativamente a presunte lettere di Papa Francesco, siglate solo con l'iniziale del nome, che vengono alla luce solo dopo la sua morte, dà prova di quanto fitta sia la ragnatela di corruzione tessuta da molti prelati, inclusi cardinali dati come "papabili".
CONCLUSIONE: LASCIARE SPAZIO A DIO
Al di sopra di tutte le considerazioni snocciolate in questi articoli, la grande sfida del nuovo pontefice è la stessa dei precedenti, in questi ultimi due secoli: rispondere alla crescente secolarizzazione che penetra il mondo e ha invaso la Chiesa. Non v'è che un solo rimedio a questo processo che appare sempre più aggressivo e inarrestabile; un rimedio che potrà sembrare modesto rispetto ai grandi discorsi che stiamo udendo in questi giorni sull'agenda per il nuovo pontificato, zeppa di sinodalità, inclusività, cura della "casa comune", aperture a todos, todos, todos. Il rimedio è quello di permettere a Dio di agire nella sua Chiesa, di manifestarsi nella sua Chiesa. Questa strada esige che ciascuno si rimetta al proprio posto di miseri uomini peccatori, i quali, ogni volta che pensano di dover cambiare la Chiesa, modernizzare la Chiesa, aggiornare la Chiesa, finiscono per oscurare la presenza di Dio.
Bisognerà prima o poi prendere atto che la fede fiorisce o rifiorisce laddove si lascia più spazio a Dio e gli uomini accettano di non strafare. Per rendersene conto, sarebbe sufficiente visitare i santuari, soprattutto quelli mariani, prendere contatto con monasteri e case religiose che non hanno gettato abito e regola alle ortiche (magari dopo un restyling forzato voluto da Dicastero per la vita consacrata, sotto la guida canonica del cardinale Ghirlanda), recarsi nelle parrocchie dove ancora la liturgia viene celebrata con grande decoro, il catechismo non è edulcorato e le processioni e i pellegrinaggi non vengono banditi come reperti oscurantisti. Sono queste le realtà dove ci sono conversioni, dove le famiglie fioriscono, dove nascono nuove vocazioni, dove ci sono radici sufficientemente profonde e solide per resistere all'aridità dei nostri tempi.
Nota di BastaBugie: Stefano Fontana nell'articolo seguente dal titolo "Il processo sinodale è una gravissima minaccia per la Chiesa" spiega perché la sinodalità è un processo che sta cambiando (protestantizzandola) la struttura della Chiesa cattolica, dal ruolo dei vescovi al Catechismo, dal rapporto con il mondo al relativismo dottrinale. È il pericolo più grave perché si tratta di una prassi e non di una dottrina. Il voto in conclave ne tenga conto.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 5 maggio 2025:
In questo conclave la posta è molto alta. Tra l'altro ne è una prova indiretta la compatta pressione dei mass-media di regime per una indiscutibile "continuità" con Francesco. La posta in gioco è alta perché questo Pontificato ha puntato diritto verso significativi radicali cambiamenti rispetto alla tradizione dottrinale, disciplinare e pastorale. Queste rivoluzioni non possono venire nascoste sotto atteggiamenti che hanno trovato gradimento tra la gente, oppure sotto un fraseggio di tipo esistenziale e sentimentale che ha talvolta scaldato i cuori, o tramite le espressioni
22 APR 2025 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8143
FINE DI UN PONTIFICATO ALL'INSEGNA DEL CAMBIO DI PARADIGMA di Luisella Scrosati
Il pontificato del primo papa gesuita della storia è giunto al tramonto: la preghiera di tutto il popolo cristiano offrirà il suffragio per l'anima del pontefice defunto durante i tradizionali novendiali. Dal tardo pomeriggio di quel 13 marzo 2013, quando Francesco si affacciò sulla piazza gremita salutando tutti con un semplice "buonasera", sono ormai passati oltre dodici anni. Anni in cui il "cambio di paradigma" partì con l'acceleratore al massimo, ma anche con il freno a mano tirato, data la presenza di un Benedetto XVI silenzioso, ma vigile.
Questo gioco di forze opposte lo si comprese molto bene durante il Sinodo sulla Famiglia, che partorì la nota esortazione post-sinodale Amoris Lætitia, nella quale quanti volevano introdurre evidenti elementi di rottura dovettero accontentarsi di dirottarli nelle note. Poi vennero i Dubia di quattro cardinali - Caffarra, Burke, Brandmüller, Meisner - che mai ottennero risposta, segno che il papa voleva andare avanti per la sua strada, senza rendere ragione del suo operato, nemmeno a quanti, in ragione della nomina cardinalizia, sono più strettamente uniti al papa nel governo della Chiesa universale. La linea iniziale fu comunque il tentativo disperato di mostrare una presunta "continuità" tra il papa tedesco e quello argentino, che portò alla figuraccia del caso di mons. Dario Edoardo Viganò, costretto a manipolare la risposta di Benedetto XVI alla richiesta di un testo di endorsement alla teologia di papa Francesco, presentata in una collezione di undici piccoli volumi editi dalla Libreria Editrice Vaticana.
Poi fu il turno del Sinodo sull'Amazzonia, con il tentativo chiarissimo di rendere facoltativo il celibato sacerdotale, naufragato per la tempestiva pubblicazione del libro Dal profondo del nostro cuore, da parte di Benedetto XVI e il cardinale Robert Sarah; quindi, le encicliche sociali Laudato si' e Fratelli tutti, un fardello che non sarà facile smaltire, divergenti su molti punti dall'insegnamento della dottrina sociale cattolica.
Un nuovo Sinodo sulla sinodalità andava a sigillare la "conversione sinodale" della Chiesa, con posizioni di apertura su temi caldi come le benedizioni di coppie dello stesso sesso, il diaconato femminile, l'esercizio dell'autorità nella Chiesa; aspetti che provocarono una nuova serie di Dubia da parte di cinque cardinali - Burke, Brandmüller, Sarah, Zen, Sandoval. Il 2021 fu l'anno di Traditionis custodes, che cancellava con un colpo di spugna l'altro motu proprio di papa Benedetto, Summorum Pontificum, e palesava una cecità piena di livore nei confronti di cellule vive della Chiesa e del rito più diffuso, fino ad una manciata di anni prima, e tra i più longevi della Chiesa latina. Fu un colpo al cuore per tanti cattolici, frequentanti o meno il Rito antico, ma anche per lo stesso Ratzinger, che a questa faticosa e indispensabile riconciliazione interna della Chiesa aveva dedicato la sua vita.
LA DISSOLUZIONE INTERNA DEL CATTOLICESIMO
Con la morte di Ratzinger si ebbe il tracollo: congedato il cardinale Ladaria, la nomina di Fernández al Dicastero per la Dottrina della Fede diede un'ulteriore accelerazione alla dissoluzione interna del cattolicesimo, che raggiunse una crisi con pochi precedenti nella pubblicazione della dichiarazione Fiducia supplicans. Questa e altre le nomine di uomini del tutto privi del senso della Chiesa, ampiamente ideologizzati e caratterizzati fin nelle midolla da quella che papa Benedetto aveva battezzato come «l'ermeneutica della rottura». E, in non pochi casi, anche da una condotta morale che si rivelerà tutt'altro che integra.
Come se non bastasse, ad uscire a pezzi, da questi anni di pontificato, è la figura stessa del papa. Dalla prima "timida" intervista a Eugenio Scalfari, prese avvio un pontificato che si è svolto sulla piazza mediatica, assecondandone i canoni e le aspettative, fino al mediatico sigillo di un pontificato, che si è chiuso con le ultime due apparizioni pubbliche di Francesco, se si eccettuano le fugaci e "mute" comparse in carrozzina di questi ultimi giorni, rispettivamente alla trasmissione di Fabio Fazio e al Festival di Sanremo. Intelligenti pauca.
Il successore dell'Apostolo Pietro, che esiste per confermare con la sua parola franca e ponderata la fede dei fratelli, è divenuto onnipresente sui mezzi di comunicazione: interviste "ufficiali" rilasciate in aereo al ritorno dai viaggi apostolici ed altre meno ufficiali, apparizioni abituali in programmi televisivi, docufilm e perfino messaggi su Tik Tok. La salvezza eterna, la vita morale e sacramentale, la persona di Gesù Cristo buttati sulla pubblica piazza con espressioni approssimative, insegnamenti incompleti, affermazioni fuorvianti. Come quando papa Francesco si inventò che «tutte le religioni sono un cammino per arrivare a Dio», senza ulteriori precisazioni, vanificando con queste poche parole la verità che solo in Gesù Cristo c'è la salvezza.
IL PAPA NON DEVE PROCLAMARE LE PROPRIE IDEE
Questa "onnipresenza" mediatica ha comportato l'inevitabile conseguenza di ogni sovraesposizione: la parola del papa è divenuta una tra le tante, forse un po' più autorevole in ragione della sua anzianità e del suo prestigio morale, ma nulla più. Quello che il pubblico legge o ascolta non è più considerato come la parola del successore di Pietro, che fa risuonare ancora oggi la forza della parola del Signore, ma il parere di un uomo che si mescola alla cacofonia di tante altre voci.
Se il papa non parla più per insegnare la verità di Gesù Cristo, ma per esprimersi a braccio sui più svariati temi del momento, allora agli occhi degli uomini il senso dell'ufficio che Dio gli ha affidato al momento della sua accettazione si stempera fino a nascondersi dietro al semplice uomo che tale ufficio ricopre. Il papa «non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all'obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo». Così Benedetto XVI nell'omelia di insediamento sulla Cathedra romana: Francesco ha fatto esattamente il contrario. Il giusto cordoglio per la morte del papa non deve ipocritamente cancellare questa amara realtà. Per il bene della Chiesa.
La Chiesa, con questa sovraesposizione mediatica di Francesco, è ora forse percepita come più vicina all'uomo di oggi? La verità, drammatica, è un'altra e bisogna avere il coraggio di riconoscerla: ad aver raggiunto l'uomo moderno non è «la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità» (1Tm 3, 15), ma quella immagine della Chiesa che rimane dopo il "lifting" dei criteri massmediatici, più simile ad una modesta organizzazione spirituale ed umanitaria, utile al sistema di moda fintanto che essa gli sia docilmente funzionale. Il pontificato di Francesco, che ha fatto della denuncia della mondanità il suo cavallo di battaglia, ha di fatto impresso un'accelerazione senza precedenti all'autosecolarizzazione della Chiesa. Preghiamo che il nuovo pontefice abbia la forza della verità per un deciso cambio di rotta.
5 FEB 2025 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=8064
LA REGOLA DI SAN BENEDETTO SPIEGA COME FRENARE LA LINGUA E CONTROLLARE IL RISO di Luisella Scrosati
San Benedetto dedica il nono, decimo e undicesimo gradino dell'umiltà alla parola e al riso. Il monaco che cammina sulle vie dell'umiltà, e dunque della santità, «sa frenare la sua lingua» e si astiene «dal parlare finché non viene interrogato», «non è facile e pronto al riso» e, quando deve parlare, «lo fa pacatamente e senza ridere, con umiltà e gravità, dicendo poche e ponderate parole, senza mai alzare la voce» (Regola, 7,56-60). Tutti bocciati o, nella migliore delle ipotesi, rimandati a settembre.
Potremmo essere portati a pensare che san Benedetto sia a riguardo un po' troppo rigido, o che di fatto le sue considerazioni riguardino solo i monaci. Ma che le cose non stiano così, lo dimostra il fatto che egli si premura di ricordare che non si tratta di altro che di quanto contenuto nelle Sacre Scritture: «Nel molto parlare non manca la colpa, chi frena le labbra è prudente», ammonisce il libro dei Proverbi (10,19); e il libro del Siracide (21,20) conferma che «lo stolto alza la voce mentre ride; ma l'uomo saggio sorride appena in silenzio».
Non si tratta certamente di assumere atteggiamenti inopportuni e fuori luogo, di fare il muso lungo, o, peggio ancora, di imporre la gravità di un atteggiamento ostentato. San Benedetto è caratterizzato da uno spiccato realismo: occorre dunque riconoscere in tutta onestà che il parlare e il ridere smodato e frequente sono segno e causa di un disordine interiore: segno, perché la "parola compulsiva" manifesta un disordine interiore; causa, perché a sua volta alimenta questo disordine.
La Regola tocca tre punti ben specifici.
Il primo: frenare la lingua, ossia applicare la terapia della taciturnitas a una tendenza logorroica, dove la lingua si muove prima di qualsiasi altra considerazione, finendo così per parlare per sfogarsi, parlare per piacere, parlare per imporsi, parlare per vanità, parlare tanto per parlare, cercando di scappare da pensieri non graditi, che potrebbero emergere nel silenzio. La parola non è un male in sé, ma essa dev'essere "pura", ossia nascere dal desiderio del vero bene nei confronti di qualcuno e da un cuore abituato al raccoglimento. Un test infallibile sta nel "misurare" quanto ci peserebbe tacere: quanto più il punteggio è alto, tanto più quella parola è contaminata da un disordine.
Secondo, evitare di ridere in continuazione o in modo sguaiato; per quanto ci possa dare un certo fastidio, la verità è espressa dal noto proverbio «risus abundat in ore stultorum». Anche questo ridere fuori misura, per intensità o frequenza, scriveva madre Anna M. Canopi, è «indice di dissipazione interiore o di desiderio di farsi notare, ponendosi al centro dell'attenzione» (Mansuetudine. Volto del monaco, 2014, p. 128). Non ci viene chiesto di essere imbronciati, ma altro è il riso smodato e altro il sorriso.
Terzo, il volume del nostro parlare: è un brutto segno quando si è soliti alzare la voce per imporsi, per far valere le proprie ragioni, per umiliare qualcuno. Non ci rendiamo conto di quante volte anziché parlare agli altri, parliamo sugli altri. Troppo di frequente parlare non è sinonimo di comunicare
17 DEC 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=8013
PER ESSERE UMILI VA ELIMINATA LA FALSA IMMAGINE DI SE' di Luisella Scrosati
«Il sesto gradino dell'umiltà consiste nell'accontentarsi di tutto ciò che vi è di più umile e spregevole, e nel ritenersi operaio indegno e incapace di fronte a ogni ordine che viene dato, ripetendo con il profeta: "ero ridotto a nulla e non capivo, davanti a te stavo come una bestia, ma sono con te sempre"». Così la regola di San Benedetto (VII, 49-50).
Di fronte a questo testo, noi, uomini del XXI secolo, abituati a far valere i nostri diritti e a ricercare spasmodicamente la stima di sé, siamo più che tentati di protestare contro questa svalutazione della dignità umana e di noi stessi, foriera di complessi psicologici distruttivi. Prima di buttare tutto all'aria, dovremmo farci almeno incuriosire dall'inatteso finale di questo sesto gradino: "sono sempre con te". Parole tratte dal salmo 72,23 e che sembrano rivelare un'inaspettata pace, che nasce dalla consapevolezza di essere con il Signore. Leggendo questo breve passo della Regola si ha l'impressione di entrare in un sentiero impervio, faticoso, pieno di rovi ed esposto sull'abisso, al termine del quale però ci attende la pace di un lago di montagna con i suoi ruscelli e una florida vegetazione.
In effetti, San Benedetto ci esorta a liberarci da quell'affanno con il quale cerchiamo di tenere in piedi una piacevole immagine di noi stessi, agli occhi altrui e ai nostri stessi occhi, che è la vera, profonda ragione della nostra tristezza e insoddisfazione. E per liberarcene, ci viene messa davanti la strada dell'umiliazione, che ci chiede di accontentarci di quello che ci capita, di quello che la vita ci pone davanti, senza stare a recriminare che meritavamo di più, che i nostri talenti non sono stati compresi, che è colpa di Tizio o di Caio se non possiamo diventare quello che vorremmo, e così via.
"Questo sesto gradino", commenta dom Guillaume, "è il passaggio così importante dal sogno di sé all'umile accettazione di sé stessi. L'accoglienza semplice e pacifica della realtà" (Un cammino di libertà, p. 166). Passaggio che ci libera dall'assurda e sterile fatica di voler tenere in piedi un'immagine di noi stessi, per farci entrare nella libertà della verità. Il piegarci umilmente ai lavori più spregevoli e pesanti, come anche a quelli meno "rimunerati" e più monotoni, l'accettazione senza recriminazione di quanto ci viene chiesto, a prescindere che ci sia gradito o meno, sono la strada per questa liberazione. Una strada che però noi non solo vorremmo evitare, ma di fatto facciamo di tutto per sfuggire, fino a quando il Signore ci fa la grazia di chiuderci ogni altra via e far crollare ogni ponte.
In questo isolamento, in questo venire meno del nostro agitarci per far andare le cose secondo quello che noi pensiamo sia bene per noi, sorge il fiore dell'affidamento pacifico: "Fa' dell'essere da te plasmato ciò che vuoi. Io credo che, essendo buono, tu provvederai per me il bene, anche se per mio vantaggio non lo conosco. Ma non sono neppure degno di conoscerlo, né chiedo di imparare per averne riposo: probabilmente ciò non mi giova. Né oso chiedere sollievo da una lotta, anche se sono debole e mi affatico in tutto, perché non so cosa mi giova. Tu sai tutto: fa' come sai (...). Io dunque non ho nulla. Davanti a te sono come un essere senz'anima: la mia anima la affido alle tue mani immacolate" (Pietro Damasceno, in Filocalia, III, p. 148). Questo affidamento ci libera dal pesante fardello di dover sempre corrispondere a uno standard costruito da mano d'uomo (molto spesso la nostra), per poter vivere nella grande pace di essere sempre con Lui.
26 NOV 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7990
I MIRACOLI SERVONO A RICONOSCERE LA PRESENZA DI DIO di Luisella Scrosati
Ogni tanto bisogna tornarci sopra. Parliamo dei miracoli, della loro presenza ostinata e ingombrante nelle Sacre Scritture: ostinata perché li ritroviamo quasi ad ogni pagina della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, senza eccezioni e pure con la pretesa che si tratti di fatti veri e propri, ben distinti dal racconto edificante e parabolico. Ingombrante, perché nell'epoca dell'incenso immolato cotidie alla Scienza, provoca sempre un certo imbarazzo leggere nei testi fondativi e sacri della fede cristiana di guarigioni, esorcismi, tempeste sedate e persino risurrezioni di morti. Come facciamo a mostrarci credibili e ragionevoli di fronte ai nostri contemporanei, sedotti e convinti solo da grafici, statistiche e formule chimiche?
La domanda è senz'altro curiosa, perché inverte di 180 gradi il senso della presenza dei miracoli nelle Scritture: quello di mostrare proprio la credibilità della fede nel Dio d'Israele e in Gesù Cristo. Ciò che a noi suscita un certo disagio è presente nei testi sacri precisamente per mostrare con forza l'azione di Dio in mezzo al suo popolo, per togliere ogni dubbio sulla verità della sua presenza, per rafforzare la fede in un'opera e un messaggio che la sola ragione umana, lasciata a se stessa, non riuscirebbe a credere.
Si presta molta attenzione ad affermare - e giustamente - che i miracoli sono segni che vogliono esprimere una profonda realtà da credere, un tratto della divinità a cui aderire; ma non di rado questa enfasi ha finito per mettere in ombra il senso più generale e fondamentale del miracolo: achtung! Dio è all'opera! Per non parlare di quelle interpretazioni che, così attente al carattere di segno, ritengono persino superfluo indugiare sulla veridicità del fatto narrato: l'importante è il significato.
«Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31). Così il primo epilogo del quarto Vangelo (il secondo è 21,24-25) esprime in modo piano il senso per cui il Signore Gesù ha compiuto miracoli e per cui essi sono stati narrati a quanti non hanno potuto vederli di persona: «perché crediate... e perché, credendo, abbiate la vita». L'evangelista Giovanni lega il miracolo nientemeno che alla salvezza eterna, in quanto supporto di quella fede necessaria per la salvezza. Non è cosa di poco conto, che spiega come mai, tra l'altro, il Signore non abbia perso il vizio di disseminare i suoi prodigi nella storia.
OBIEZIONI AI MIRACOLI
L'obiezione che normalmente si solleva è che la fede, se autentica, non ha bisogno dei miracoli, i quali ne costituirebbero addirittura una sorta di "contaminazione". Gesù stesso sembra confermare questa posizione, allorché rimproverò il funzionario del re, venuto a Cana di Galilea per implorare la guarigione del Figlio: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» (Gv 4,48).
Un'altra obiezione, certamente sensata, è che gli uomini facilmente ricercano il miracolo come soluzione ai loro problemi di quaggiù: malattia, miseria, pericoli sono tutte situazioni nelle quali domandiamo a Dio di intervenire non per rafforzare la nostra fede, ma per liberarci dai mali materiali che incombono su di noi. E dunque, paradossalmente, l'aspettativa del miracolo o persino un miracolo effettivamente compiuto, rischierebbero pure di favorire in noi questo attaccamento alle cose che passano. È la situazione descritta nel racconto della moltiplicazione dei pani, narrata nel Vangelo di Giovanni, che ha provocato il rimprovero del Signore: «In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26).
Ancora, si osserva che il miracolo può addirittura aggravare la condizione spirituale di una persona: di fronte ad un prodigio, il rifiuto di credere e l'indurimento del cuore peggiorano la situazione, aggravando la colpa di fronte a Dio. Anche questo dramma è attestato nel Vangelo e raggiunge il suo apice in occasione della risurrezione di Lazzaro. Di fronte alla straordinaria risurrezione di un cadavere quadriduano per mezzo della sola parola, la reazione del Sinedrio è stata così riassunta laconicamente da Giovanni: «Da quel giorno, dunque, decisero di ucciderlo» (Gv 11,53). Dalla bocca stessa di Gesù proviene la dura parola verso coloro che recalcitrano di fronte a chiari prodigi: «Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere. Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi» (Lc 10,13-14).
RISPOSTA ALLE OBIEZIONI
E tuttavia il Signore Gesù, che ben conosce in cosa consista la purezza della fede, come la nostra reticenza a volgerci alle realtà celesti, sia infine la durezza incredula del nostro cuore, non si è affatto rifiutato di compiere miracoli. Perché?
Abbiamo una prima traccia interessante di risposta nel famoso brano dei discepoli del Battista che erano stati mandati da Gesù a domandargli se fosse lui colui che doveva venire. A costoro il Signore replicò di andare a riferire a Giovanni «ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,4-6). Il Signore articola la sua risposta attingendo ai testi messianici del profeta Isaia ben noti ai suoi uditori: la venuta del Messia sarebbe stata riconosciuta da alcuni segni: i ciechi vedono, i sordi odono, i muti parlano e gli zoppi camminano. Gesù invita i discepoli di Giovanni a constatare che tali segni sono lì presenti, davanti ai loro occhi. Il miracolo serve dunque a riconoscere la presenza divina. Ed è per questo che il Signore "corre" i tre rischi, assolutamente reali, sopra riportati: gli uomini devono poter riconoscere i segni chiari di Dio presente in mezzo a loro per credere e, credendo, ottenere la vita eterna.
Certamente Dio non si limita a questa azione esterna: mentre compie il prodigio, egli muove anche i cuori dall'interno, suscitando e sostenendo la risposta dell'uomo, che resta sempre libera. E tuttavia la logica di Dio, che ritroviamo anche nell'Antico Testamento, è quella di dare agli uomini segni prodigiosi perché credano. Il grande evento fondatore del popolo d'Israele, l'Esodo, non è stato forse tutto all'insegna di segni miracolosi? Jahvé non ha forse mandato Mosè dal Faraone a compiere prodigi? Egli non è forse intervenuto a liberare il suo popolo compiendo il grande segno dell'attraversamento del Mar Rosso? L'ingresso nella Terra promessa, sotto la guida di Giosué, non è forse avvenuto con un altro prodigioso attraversamento, quello del fiume Giordano?
Il libro del Deuteronomio non è altro che una continua esortazione a ricordare i prodigi che Dio ha compiuto sotto gli occhi di coloro che stavano ascoltando la parola di Mosè: «Ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un'altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore vostro Dio in Egitto, sotto i vostri occhi?» (Dt 4, 34). O ancora: «ricordati delle grandi prove che hai viste con gli occhi, dei segni, dei prodigi, della mano potente e del braccio teso, con cui il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire» (Dt 7,19).
IL DIO VERO E I FALSI DÈI
Proprio l'onnipotenza rivelata dai prodigi compiuti distingue il Dio d'Israele dai falsi dèi delle nazioni. Non fu forse questa la discriminante tra il Dio di Elia e i Baal (cf. 1Re 18,1-40)? Gli idoli delle genti non sono forse caratterizzati dalla loro incapacità di compiere qualcosa degno di Dio? «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano» (Sal 114, 5-7). Per questo il senso della presenza di Israele in mezzo alle nazioni era precisamente quello di ricordare «i prodigi che egli ha compiuti, i suoi miracoli e i giudizi della sua bocca» (1Cr 16,12), perché tutti potessero riconoscere il vero Dio.
Gesù si mette esattamente nella stessa linea, mostrando a tutti che egli è quello stesso Jahvè che ha compiuto meraviglie per il popolo d'Israele e che ora è venuto nella carne per compiere una liberazione più radicale e definitiva: quella dalla tirannia del male. Tra i miracoli compiuti da Gesù ve n'è uno che rivela specificamente questa logica: la guarigione del paralitico calato dal tetto (cf. Lc 5,17-26). Il miracolo della guarigione avviene precisamente per mostrare che al Figlio dell'uomo è stato dato il potere di rimettere i peccati. Un grandioso segno visibile rivela qualcosa di ancora più grandioso che non può essere compreso dai nostri sensi.
A ben vedere, è una dinamica analoga a quella della creazione: la creazione esprime sensibilmente le perfezioni divine e quel mondo spirituale non accessibile ai sensi; analogamente, segni che oltrepassano il corso naturale, manifestano ed esprimono la presenza del mondo soprannaturale. Dio si "tocca" solo tramite la fede, e non senza un senso di smarrimento e di vertigine, ma questa fede è richiesta all'uomo rispettando la sua natura ragionevole. Cristo è Dio stesso, può rimettere i peccati, redime l'uomo con
5 NOV 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7971
DAI VESCOVI UN GIRO DI VITE SUGLI ABUSI LITURGICI di Luisella Scrosati
La Conferenza Episcopale Italiana ha stabilito un energico giro di vite sugli abusi liturgici, emanando una circolare per tutti i sacerdoti, perché pongano fine ad atti che non rispettano la natura del culto pubblico della Chiesa. Il cardinale Zuppi ha firmato un documento che prevede sanzioni verso i sacerdoti protagonisti di liturgie fai-da-te. Non ci credete? Fate bene, perché per i vescovi italiani le priorità sono la Costituzione, il cambiamento climatico e il sostegno di Bruxelles. Non così però per i confratelli nigeriani, che invece hanno realmente preso carta e penna per comunicare ai loro sacerdoti che di abusi liturgici ne hanno abbastanza.
Con una dichiarazione del 15 agosto scorso, la Conferenza Episcopale Nigeriana (CBCN) ha fermamente condannato l'«aumento allarmante nella nostra nazione di aberrazioni durante il culto, commesse da alcuni nostri preti». Nel documento, che porta la firma del presidente della CBCN, mons. Lucius Iwejuru Ugorji, arcivescovo di Owerri, lamentano soprattutto «deviazioni dalle preghiere prescritte e dalle rubriche della Messa, inclusa la preghiera eucaristica» ed un «trattamento irriverente dell'Eucaristia», con particolare riferimento all'uso di camminare in mezzo alla navata con il Santissimo sacramento, benedicendo le persone agitando l'ostensorio a mo' di aspersorio.
Altri abusi vengono ripresi dai vescovi nigeriani: presenza di musica non liturgica o addirittura profana nella liturgia, danze indecenti, continua raccolta di offerte durante la celebrazione eucaristica, utilizzo della predicazione per finalità che non le sono proprie, invenzione di riti e benedizione di oggetti che la Chiesa non include tra i sacramentali e, più in generale, una mancanza di preparazione adeguata delle celebrazioni liturgiche.
ELENCO DI ABUSI
Si tratta di un elenco di abusi che evidentemente colpiscono le chiese cattoliche della Nigeria (in buona parte sovrapponibile a quanto accade da noi), ma che manifestano un atteggiamento di fondo, adeguatamente colto e stigmatizzato dai vescovi: «queste azioni non sono semplicemente errori di valutazione; sono violazioni dell'ordine sacro e come tali devono essere trattati. Ricordiamo ai nostri sacerdoti che l'altare non è un palcoscenico teatrale e che la liturgia neppure è un luogo di innovazione». Si trova qui il cuore di questa dichiarazione: la liturgia risponde a un ordine sacro che non è a disposizione dell'arbitrio degli uomini, nemmeno se preti o vescovi, qualunque sia la loro più o meno lodevole intenzione. Note di benedettiana memoria.
«La liturgia è un'anticipazione del banchetto celeste, un incontro sacro con la divinità, e dev'essere sempre condotta con la più grande solennità e il più grande rispetto. Qualsiasi atto che sminuisce questo incontro sacro dev'essere condannato e corretto con la serietà che merita», continua la dichiarazione. In un contesto di aperta e sanguinaria persecuzione dei cristiani, i vescovi nigeriani fanno quadrato per difendere il primato di Dio, nel culto liturgico a lui dovuto. Ai loro occhi evidentemente non è una minaccia meno grave quella che nasce dall'interno della Chiesa, dal cuore del santuario, dalle mani e dalle labbra dei sacerdoti, di quella che proviene dai gruppi di islamisti.
In un Paese dove, nel solo 2022, quasi 6mila cristiani sono stati uccisi, oltre 2mila chiese distrutte, 124mila persone sono state allontanate con forza dalle loro case, dove continuano l'assassinio e il rapimento di laici e chierici, i vescovi hanno la lucidità e lungimiranza di mettere in guardia i sacerdoti dal violare l'ordine sacro nella sua forma esterna. Visione pienamente illuminata dalla fede e animata dalla virtù di religione: quella di celebrare i santi misteri, continuano i vescovi, «non è una responsabilità da prendere alla leggera, né una responsabilità che permette un'interpretazione personale. Questo si può ottenere solo quando la liturgia viene celebrata con il decoro, la riverenza e la fedeltà che essa richiede. Gli abusi e le deviazioni relative alla forma prescritta non sono solamente inaccettabili, ma costituiscono un grave danno per i fedeli e per la Chiesa».
LA DIREZIONE DA PRENDERE
Chiesa e fedeli: sono quasi una rarità i sacerdoti consapevoli che non hanno alcun diritto di alterare, sminuire o modificare i sacri riti approvati dalla Chiesa: «la Chiesa ci ha dato delle direttive chiare sul modo in cui la liturgia dev'essere celebrata, e queste direttive devono essere seguite senza eccezioni. La fedeltà alle leggi della Chiesa non è facoltativa, ma obbligatoria. I fedeli non meritano altro che la celebrazione corretta e rispettosa dei misteri della nostra fede».
I fedeli, appunto, le vittime dei gusti personali dei preti e delle commissioni liturgiche: vittime quando il loro diritto di poter partecipare alla sacra liturgia, senza "additivi" e senza minimalismi essenzialisti, viene calpestato, con loro grande sofferenza; doppiamente vittime quando seguono entusiasti le creatività liturgiche dei loro pastori.
Come nelle visioni dell'Apocalisse, la purezza del copioso sangue dei martiri entra nella liturgia che unisce cielo e terra, liturgia descritta con minuziosità da San Giovanni nelle forme della sua sollemnitas, senza la quale essa non è, nella migliore delle ipotesi, che un semplice esercizio di devozione personale e nelle peggiori una vera e propria manipolazione di ciò che spetta a Dio solo.
La Nigeria è davanti ai nostri occhi per capire qual è la direzione da prendere, per uscire dalla grave crisi che attanaglia la Chiesa e rischia di farla estinguere: glorificare Dio con il sacrificio della vita; glorificare Dio con la solennità e il profondo rispetto dei sacri riti. E la Chiesa in Nigeria, pur con tutte le sue ombre e i suoi limiti umani, scoppia di battesimi e vocazioni. La nostra languisce, mentre è tutta indaffarata a perseguitare il rito antico.
2 OCT 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7940
IL PAPA E IL DOVERE DI ASSOLVERE di Luisella Scrosati
Era passata inosservata l'ennesima grave esternazione di papa Francesco in occasione del recente viaggio in Indonesia. Ma ci ha pensato il fido Antonio Spadaro a riesumarla e farla conoscere al mondo sul sito de La Civilità Cattolica, riportando diversi colloqui di Francesco in occasione del Viaggio Apostolico, incluso quello con 42 gesuiti di Timor Est, il 10 settembre.
Il Papa ha ripetuto ancora una volta di non aver mai rifiutato l'assoluzione, aggiungendo però un dettaglio che lo pone direttamente sotto l'anatema del Concilio di Trento. Già nel novembre 2022, parlando ai Rettori e ai Formatori dei Seminari dell'America latina, Francesco si era spinto molto alla deriva (vedi qui), etichettando come "delinquenti" quei sacerdoti che rifiutano l'assoluzione. Poi, il 14 gennaio scorso, ospite della trasmissione Che tempo che fa, aveva ostentato la sua misericordia, affermando che «in 54 anni di sacerdozio ho soltanto negato una sola volta l’assoluzione per l’ipocrisia della persona». Ora, con i confratelli di Timor Est, il Papa confessa «che in 53 anni di sacerdozio non ho mai rifiutato un’assoluzione». Non è solo il computo degli anni di sacerdozio a non tornare (dal prossimo 13 dicembre saranno infatti 55), ma anche il contenuto dei suoi racconti: questa benedetta assoluzione l'ha negata almeno una volta all'ipocrita o non l'ha mai negata? Quale sarà la prossima versione? La sensazione che Bergoglio se le inventi di sana pianta è piuttosto difficile da rintuzzare.
Ma questa volta il Papa ha pensato bene di aggiungere al suo già problematico palmarès una nuova "nota di demerito". Ha infatti affermato di aver sempre perdonato, anche quando la confessione «era incompleta» (corsivo nostro). E ha proseguito: «Ho sentito dire a un cardinale che, quando è in confessionale e le persone cominciano a dirgli i peccati più gravi balbettando per la vergogna, dice sempre: "Vada avanti, vada avanti, ho capito già", anche se non ha capito niente. Dio capisce tutto. Per favore, non trasformiamo il confessionale in un consultorio psichiatrico, non trasformiamolo in un tribunale. Se c’è una domanda da fare, e spero che siano poche, la si fa e poi si dà l’assoluzione».
LA CONFESSIONE INCOMPLETA
Come si può notare, il Papa ha esplicitamente fatto riferimento ad una confessione incompleta. L'aggettivo è indicativo di una precisa espressione teologica, che si riferisce ad una confessione nella quale il penitente volutamente tace uno o più peccati mortali da lui commessi e non precedentemente confessati. In simili situazioni, la confessione viene a mancare del requisito essenziale dell'integrità, ossia la confessione di tutti i peccati gravi (la confessione dei peccati veniali è consigliata, ma non obbligatoria) di cui si è consapevoli, dopo un attento esame di coscienza, alla luce dei santi Comandamenti.
Ora, l'integrità dell'accusa è condizione necessaria per ottenere la remissione dei peccati, ossia è condizione per la validità del sacramento, esattamente come il pentimento e il proposito di emendarsi. Vi sono situazioni in cui ovviamente il sacerdote non può sapere che il penitente stia tacendo dei peccati gravi, perché non ne ha elementi oggettivi. Altre in cui ne ha il sospetto e allora ha il dovere di porre delle domande per aiutare il penitente a confessare tutte le colpe gravi commesse; è il classico caso della persona che non si confessa da 30 anni e dice solo di aver mangiato una caramella in Quaresima... Vi sono poi altre situazioni in cui il sacerdote ha la certezza che la confessione non sia integra, come nel caso di un peccatore pubblico che taccia appunto la colpa nota. Le parole del Papa portano decisamente a questa terza ipotesi, dal momento che Francesco ha fatto riferimento ad una confessione effettivamente incompleta e non al sospetto insolubile che potesse essere tale.
In sostanza, il Papa si è posto come esempio per esortare i confratelli ad impartire assoluzioni invalide, finendo piuttosto chiaramente sotto l'anatema scagliato dal Concilio di Trento nel settimo dei Canoni sul sacramento della penitenza: «Se qualcuno dirà che nel sacramento della penitenza per ottenere la remissione dei peccati non è necessario di diritto divino confessare tutti e singoli i peccati mortali che si ricordano dopo debito e diligente esame, anche quelli segreti e commessi contro i due ultimi precetti del decalogo [...], sia anatema (Denz. 1707). Importante la sottolineatura «di diritto divino» (iure divino), che indica espressamente che l'integrità della confessione è condizione costitutiva del sacramento e non derogabile da parte di qualsivoglia autorità ecclesiastica, fosse appunto anche il Papa, che non è affatto superiore al diritto divino.
IL PENTIMENTO DI TUTTE LE COLPE
Nella sua parte espositiva, il medesimo Concilio spiegava la ragione profonda dell'importanza e necessità di non tacere alcuno dei peccati gravi di cui si è consapevoli: «Mentre i cristiani si sforzano di confessare tutti quelli che vengono loro in mente, senza dubbio mettono tutti i loro peccati davanti alla divina misericordia perché li perdoni. Quelli, invece, che fanno diversamente e tacciono consapevolmente qualche peccato, è come se non sottoponessero nulla alla divina bontà perché sia perdonato per mezzo del sacerdote» (Denz. 1680).
Il sacramento della penitenza esiste per rimettere i peccati ed essere così riconciliati con Dio. Ora, conservare il legame con un peccato che, per sua natura, ci separa da Dio (ossia un peccato mortale), impedire volontariamente che venga alla luce per essere rimesso e la nostra anima sia così risanata, significa sottrarsi alla misericordia di Dio. Sarebbe semplicemente ridicolo pensare che il Signore rimetta "parzialmente" le colpe, ritenendo che intanto si possano assolvere le colpe confessate, ma non quelle occultate; ed ancor più assurdo sarebbe pensare che Dio rimetta quelle colpe che noi vogliamo sottrarre al suo perdono, tacendole. I peccati mortali sono sì di specie molteplici, ma tutti accomunati da una caratteristica: commettendoli, l'anima si distoglie da Dio e si priva della grazia santificante. Per questa ragione, il penitente deve ripudiarli tutti e singoli per non conservare quell'affetto al peccato, che lo manterrebbe nello stato di privazione della grazia. Perché - e questo è ciò che questo pontificato ha dimenticato e fatto dimenticare - tra il peccato mortale e la grazia santificante c'è esclusione reciproca: o c'è l'uno o c'è l'altra. Appunto perché non si tratta di "cose" che possono stare l'una accanto all'altra, ma di disposizioni dell'anima che o si volge a Dio con un vero pentimento di tutte le sue colpe oppure si distoglie da lui, conservando affetto per la colpa.
ASSOLVERE ANCHE SE NON SI PUÒ SIGNIFICA INGANNARE IL FEDELE
Papa Francesco è nuovamente cattivo maestro: assolvere un penitente, sapendo che la sua confessione non è integra, significa ingannare gravemente il fedele, simulando un'assoluzione che non può che essere invalida, e profanare così il sacramento. Lasciare che il fedele occulti le proprie colpe, significa lasciarlo nella melma della colpa ed impedire la sua guarigione. Si tratta dunque a tutti gli effetti di una falsa e pericolosa misericordia.
Non meno problematica è l'esempio riportato dal Papa, nel quale si evince che non sarebbe necessario che il penitente specifichi di quali peccati si sta accusando, né che il sacerdote lo comprenda. Il Concilio di Trento, al contrario, insegna che parte essenziale dell'integrità della confessione è lo specificare il tipo di peccato ed anche «le circostanze che mutano la specie del peccato, perché senza quelli né i penitenti esporrebbero integralmente i peccati, né i giudici li conoscerebbero a sufficienza per percepirne esattamente la gravità e imporre ai penitenti una pena proporzionata» (Denz. 1681)». Perché, quanto alla gravità, altro è rubare una matita al compagno di classe e altro rubare ad una famiglia il necessario per vivere; quanto alla specie, altro è rubare al supermercato e altro rubare la pisside con le ostie consacrate dal tabernacolo. Non basta, per esempio, accusarsi di aver peccato contro la purezza: senza entrare ovviamente in dettagli inutili e morbosi, si deve però confessare se il peccato contro il sesto comandamento è avvenuto da soli, o con altre persone; e se queste altre persone sono sposate o libere, se sono persone del proprio sesso o no, perché, come è facile comprendere, cambia la specie di peccato.
È da notare inoltre come il Concilio tridentino non tema di chiamare il confessore «giudice», e, come se non bastasse, di definire «empio affermare che una tale confessione», nella quale si confessano tutti i peccati gravi che si ricordano e le circostanze specificanti, sia «impossibile o chiamarla tortura delle coscienze». Esattamente quanto fa di continuo papa Francesco, mettendosi così nell'infelice compagnia di Lutero, Melantone e Calvino, che sono i bersagli espliciti di questo testo del tridentino.
30 JUL 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7847
IN OCCIDENTE VIVIAMO IN UNA DEMOCRAZIA TOTALITARIA di Luisella Scrosati
Fu lui il primo ad associare tra loro due termini apparentemente antitetici. Stiamo parlando dello storico polacco Jacob Leib Talmon (1916-1980), e dell’ormai classico saggio di filosofia politica "Le origini della democrazia totalitaria", edito per la prima volta nel 1952.
È possibile che la democrazia divenga totalitaria? È già accaduto nella storia e accade di nuovo. L’analisi di Talmon va alla Francia di fine Ottocento, e a quegli autori che prepararono concettualmente la Rivoluzione del 1789, come l’ex-allievo dei Gesuiti, Claude-Adrien Helvétius, il barone renano, Paul Henri d’Holbach, il ben più noto Jean-Jacques Rousseau, il misterioso Morelly, forse sacerdote, di cui non si saprebbe nulla se non avesse lasciato l’opera Code de la nature, e l’Abbé de Mably, dapprima gesuita e poi massone. Il libro analizza anche il pensiero di due attori fondamentali della Rivoluzione, ossia Emmanuel Joseph Sieyès, prete che abbracciò con entusiasmo la Costituzione civile del clero, e l’“Arcangelo del terrore”, Louis Antoine Léon de Saint-Just, per terminare poi con il rivoluzionario François-Noël Babeuf. Allora come oggi, con le stesse dinamiche, le stesse logiche.
Tre gli ingredienti essenziali della madre di tutte le democrazie totalitarie, e di tutte le figlie: damnatio memoriæ dell’ancien régime, ed in generale di tutto il passato dell’umanità, presentati come il regno dell’ignoranza, dei vizi e dei soprusi; instaurazione di nuovo sistema presentato come l’unico finalmente razionale e scientifico; prospettiva messianica, proiettata ad occuparsi di problemi remoti e universali, scansando quelli presenti e concreti, indegni dell’attenzione degli idéologues.
«Il pensiero democratico totalitario (...) può essere definito - spiegava Talmon - messianismo politico in quanto postula un insieme di cose preordinato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomini sono irresistibilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere, e riconosce infine un solo piano di esistenza, la politica». Si tratta di un piano di salvezza sociale, una vera e propria escatologia immanente, a cui gli uomini devono essere condotti, e che, appunto in quanto escatologia, trasforma la vita politica nell’unico piano totalizzante dell’esistenza: nulla al di fuori, nulla al di sopra.
NEL REGNO DELLA LIBERTÀ DEMOCRATICA C'È SEMPRE IL TERRORE
Va da sé che, in quanto messianismo, «gli assiomi o i postulati devono rimanere un fatto di fede. Essi non possono essere né verificati né confutati», ma semplicemente accettati; e chi pone domande o obiezioni diviene eretico. L’ideologo della rivoluzione ha la profonda convinzione «che il suo abbozzo a matita sia la sola cosa reale» e tutto il resto dev’essere ricondotto dentro questo abbozzo.
È qui che si comprende perché nel regno della libertà democratica subentri sistematicamente il terrore, pensato come male transitorio, ma inevitabile, per raggiungere quel bene determinato razionalisticamente e “scientificamente”. «Il dottrinario non pensa mai all’abbozzo a matita in termini di coercizione. Esso non è destinato a interferire con la libertà; al contrario, esso è destinato ad assicurarla. Soltanto il malintenzionato, l’egoista e il perverso possono lamentarsi che la loro libertà è violata. Essi sono colpevoli di sabotaggio, rifiutando di essere liberi e inducendo in errore gli altri». Il ricorso alla forza non è il fine, ma il mezzo necessario «per accelerare il passo del progresso umano verso la perfezione e l’armonia sociale», togliendo di mezzo quelli che, di volta in volta, vengono additati come i nemici del popolo, del progresso, della società, gli ostinati che impediscono alla società di divenire felice e sicura. Obiettivo che può essere raggiunto solo «al termine di questa guerra, solo quando il nemico è stato eliminato e il popolo rieducato».
DPCM ANTE-LITTERAM
Questo obiettivo è sempre solo un passo più in là della situazione concreta; «ripetutamente Robespierre e Saint-Just dichiararono che questo o quel decreto o epurazione era l’ultimo, proprio l’ultimo, e quello che avrebbe certamente inaugurato l’ordine naturale». DPCM ante-litteram. Ordine che diviene ancor più desiderato allorché si convince l’opinione pubblica che un grande male è all’orizzonte, come teorizzava Saint-Just nelle sue Istituzioni repubblicane (1794): «Dobbiamo aspettarci un male generale che dovrebbe essere abbastanza grande per dimostrare alla pubblica opinione la necessità di misure adatte a fare il bene». “Misure adatte” che divengono urgenti nei momenti di crisi, «in cui sono indispensabili l’unità di intento e l’azione concorde», che giustifica «l’eliminazione dell’opposizione ideologica e politica».
L’avanguardia illuminata si mostra dunque amica del popolo, perché ne conosce il bene autentico e persino le aspirazioni più profonde, così profonde da essere nascoste al popolo stesso. Essa è la vera interprete della “volontà generale”, che non è mai «la volontà degli individui spontaneamente espressa, ma qualcosa che avrebbe dovuto essere voluto e che, se necessario, (deve) essere imposto». È in virtù di questa volontà generale che l’avanguardia ha il diritto di ricorrere alla forza ed instaurare così una rivoluzione permanente, motivata ogni volta da mali che incombono e da un bene universale che è lì lì per essere raggiunto, se solo il popolo accettasse un ultimo sforzo, un’ultima restrizione, un ultimo sacrificio.
Non si deve però commettere l’errore di pensare che per la democrazia totalitaria le masse siano spettatrici: tutt’altro. Esse devono essere coinvolte, educate, così da «non lasciare al popolo la libertà di agire» come vuole, ma «fargli compiere l’azione giusta». Al popolo educando non è permesso dare una direttiva politica, almeno finché non è stato «preparato a votare come doveva».
L’analisi di Talmon non è solamente storica, ma profetica. Profezia non di un tempo che sarà, ma di un tempo che è.
2 JUL 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7844
RIFIUTANDO LA CHIESA VISIBILE VIGANO' SI SCOMUNICA DA SOLO di Luisella Scrosati
Com'era prevedibile, dopo la convocazione di Mons. Carlo Maria Viganò da parte del Dicastero per la Dottrina della Fede, l'ex-Nunzio ha risposto con un pesante J'accuse, evocando il noto J'accuse le Concile che Mons. Marcel Lefebvre scrisse nel 1976.
Viganò ha esordito con un'affermazione che lo pone automaticamente al di fuori della Chiesa cattolica, a prescindere dalla sentenza che potrà venire dalla Santa Sede: «non riconosco l'autorità né del tribunale che pretende di giudicarmi, né del suo Prefetto, né di chi lo ha nominato». Il che significa la sua volontà di non essere in comunione con la Chiesa cattolica, nella sua attuale gerarchia. Che per quanto malmessa, per quanto comprensiva di persone obiettivamente non all'altezza e probabilmente anche indegne, rimane l'unica gerarchia esistente. E senza la gerarchia non si dà la Chiesa, almeno per come l'ha fondata Gesù Cristo.
Perché, senza nulla togliere all'importanza delle questioni legate al Concilio Vaticano II, alla riforma liturgica, ai problemi di questo pontificato, rimane la domanda fondamentale: dov'è la Chiesa? Se la Chiesa non è lì dove si trova quel Papa che i vescovi hanno riconosciuto all'unanimità, se la Chiesa non è lì dove ci sono questi vescovi in comunione con la Sede di Pietro, allora non esiste più la Chiesa cattolica. La quale è, per volere del suo fondatore, una società visibile, gerarchica e fondata sulla roccia di Pietro.
L'argomento fondante della propria posizione, Mons. Viganò lo avrebbe rinvenuto nella Bolla Cum ex apostolatus officio di papa Paolo IV, che fu pontefice dal 1555 al 1559. Questa Bolla, spiega Viganò, «stabilisce in perpetuo la nullità della nomina o dell'elezione di qualsiasi Prelato - ivi compreso il Papa - che fosse caduto in eresia prima della sua promozione a Cardinale o elevazione a Romano Pontefice. Essa definisce la promozione o l'elevazione nulla, irrita et inanis, ossia nulla, non valida e senza alcun valore (...). Paolo IV aggiunge che tutti gli atti compiuti da questa persona sono da considerarsi parimenti nulli e che i suoi sudditi, tanto chierici quanto laici, sono liberati dall'obbedienza nei suoi confronti». In virtù di questa giustificazione, Viganò «con serenità di coscienza» ritiene «che gli errori e le eresie a cui Bergoglio aderiva prima, durante e dopo la sua elezione e l'intenzione posta nella presunta accettazione del Papato rendono nulla la sua elevazione al Soglio».
Viganò si immette così nel grande fiume sedevacantista, abbracciandone sostanzialmente la posizione circa la nullità della nomina o la privazione dell'ufficio ipso facto di un prelato eretico, incluso il papa. Ma il vero problema è la disambiguazione del termine "eretico": di quali eretici si tratta?
COS'È L'ERESIA?
Iniziamo con una chiarificazione previa: che cos'è l'eresia? Il Can. 751, condensando la riflessione teologica e canonistica, la definisce come «l'ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa». L'eresia dunque richiede un oggetto specifico che non è l'errore relativo a qualsivoglia verità della fede, ma la negazione di quanto la Chiesa ha infallibilmente proposto come dogma rivelato, ossia come contenuto diretto della Sacra Rivelazione, per il quale richiede un assenso propriamente di fede. L'Assunzione della SS. Vergine, l'esistenza e l'eternità dell'Inferno, l'esistenza degli Angeli sono appunto verità de fide tenenda; mentre l'impossibilità per le donne di accedere al sacerdozio o la condanna dell'eutanasia sono invece dottrine insegnate infallibilmente dalla Chiesa e certamente connesse al dato rivelato, ma non definite (almeno per ora) come divinamente rivelate. La negazione di queste ultime non costituisce pertanto formalmente un'eresia.
Chiarito dunque che l'eresia non è un errore qualunque, anche grave, circa l'insegnamento della Chiesa, vediamo che nel canone citato ricorre per due volte l'aggettivo «ostinato». Entriamo quindi nella precisazione di chi sia l'eretico inteso dai testi canonici. La distinzione classica è quella tra "eretico occulto" ed "eretico manifesto", ma quest'ultimo termine ha generato molti equivoci, e sembra dunque opportuno sostituirlo con un altro più preciso, presente in letteratura, ossia quello di "eretico notorio".
Partiamo dall'eretico occulto: si tratta di chi commette il grave peccato formale di eresia - nel senso restrittivo spiegato sopra -, ma lo fa o esclusivamente in foro interno oppure anche mediante parole e atti. Dunque, quando parliamo di eretico occulto, non dobbiamo commettere l'errore di intendere questa espressione come se escludesse di per sé una dimensione manifesta, perché - e questo è il punto capitale - l'eretico rimane occulto fino a quando non venga dichiarato eretico dalle competenti autorità ecclesiastiche, oppure egli non ammetta la propria eresia davanti alle medesime, o ancora la sua eresia non venga provata senza che vi possano essere ragionevoli dubbi in contrario, come per esempio avviene nel caso di un prelato che dovesse abbandonare egli stesso la Chiesa cattolica. Solo così può essere provata effettivamente sia l'eresia nel suo contenuto formale che l'ostinazione del soggetto, che diviene dunque imputabile; ed è solo così che l'eretico diviene notorio.
L'ERETICO OCCULTO E L'ERETICO NOTORIO
Perché questa distinzione è così importante? Perché l'eretico occulto commette sì un peccato di eresia, con il quale perde la grazia e la fede, ma permane giuridicamente nella Chiesa. È solo l'eretico notorio che invece cessa di essere legalmente membro della Chiesa. Attenzione: l'appartenenza giuridica e legale alla Chiesa non è una questione secondaria, ma sostanziale. Come affermato all'inizio, che la Chiesa sia (anche) una società visibile, alla quale si appartiene mediante vincoli giuridici, è un dogma di fede. Dunque, mentre l'eretico occulto si separa "solo" spiritualmente dalla Chiesa, ma non giuridicamente, l'eretico notorio si separa da essa in entrambe le dimensioni.
Ora, le affermazioni di papa Paolo IV, come anche di tutti i teologi che affermano che il prelato eretico perde ipso facto il proprio ufficio, si riferiscono all'eretico notorio, non a quello occulto. Se così non fosse, il giudizio di eresia sarebbe lasciato al libero esame di ciascuno, provocando inevitabili divisioni interne tra chi ritiene che Tizio sia eretico e chi non lo ritiene tale, e dunque tra chi ritiene che Caio sia ancora vescovo o papa e chi no. Ed è infatti quanto avviene nel variegato mondo sedevacantista da decenni.
Ora, se è già compito piuttosto arduo dimostrare l'effettiva eresia (occulta) di Jorge Mario Bergoglio, prima e dopo la sua elezione, posta la materia precisa dell'eresia, allo stato attuale non è di certo possibile dimostrare che egli sia stato o sia un eretico notorio. Qui si aprirebbe un lungo discorso se sia possibile che un Papa, mentre è in carica, possa diventare eretico notorio (sulla possibilità di divenire eretico occulto non ci sono serie obiezioni), perché il Papa non può essere giudicato da nessuno. Ma questo è un altro tema. A noi basta aver mostrato che, purtroppo, Mons. Viganò sta trascinando centinaia di persone nello scisma, che egli stesso rivendica, dal momento che ha ripetutamente e pubblicamente affermato di non riconoscere l'autorità del Sommo Pontefice, con il quale tutti i vescovi cattolici sono in comunione, sulla base di un passo falso.
Abbracciare la posizione di Mons. Viganò comporta necessariamente l'ammissione che la Chiesa cattolica, in quanto società visibile e gerarchicamente ordinata (e non ve n'è un'altra), è di fatto venuta meno, che la Chiesa, nella forma che Gesù Cristo le ha conferito, non è dunque indefettibile. Che le porte degli inferi hanno prevalso contro di essa. Il che è un'eresia.
La pungente penna di chi sa coniugare una profonda fede con l'insegnamento della Chiesa
Information
Author | BastaBugie |
Organization | BastaBugie |
Categories | Christianity |
Website | - |
- |
Copyright 2025 - Spreaker Inc. an iHeartMedia Company