Podcast Cover

La Galleria dei ritratti dei Benefattori dell'Ospedale di Vercelli

  • Giuseppe Ferraris di Castelnovetto

    16 NOV 2023 · voce narrante Antonio Maria Porretti Mi chiamo Giuseppe Ferraris, figlio del fu misuratore Nicola, sono notaio causidico e sono sempre vissuto nel mio paese natale della Lomellina, ma in Diocesi di Vercelli, Castelnovetto, ove morii il 13 settembre 1819. Pochi mesi prima, l'11 marzo, avevo fatto testamento, nominando mio erede universale l'Ospedale di Vercelli e lasciando l'usufrutto a mia moglie Clara Lavezzi. Così scrissi, nella motivazione ad onore dell'ospedale: “Durante la mia vita, ho riconosciuto la carità usata dai vostri Amministratori, persone degne della più grande lode, verso i poveri di Castelnovetto, che fecero ritirare e curare in detto luogo pio; onde continuino anche per l'avvenire a praticare il medesimo”. Questo patrimonio, di molte terre e due case in Castelnovetto, più i beni della mia dimora ammontavano nel complesso a lire 27.500. Mi duole molto che, per entrare in possesso della cospicua eredità, l'Ospedale abbia però dovuto affrontare per anni non poche controversie con i miei familiari, i miei più intimi! Mio fratello Francesco Antonio, Sacerdote nonché cappellano corale della cattedrale di Novara, e una delle mie tre sorelle, Cristina, sposata a Giuseppe Cotta, flebotomo. La lite era iniziata con me in vita, giacché i due contestavano i maggior beni a me derivanti dalla divisione dell'eredità paterna. Ebbene, avevo pagato io per tutti gli oneri dell'eredità, per Lire 3.000 antiche di Piemonte, e i due edifici lasciati da nostro padre in stato rovinoso fui io a rifabbricarli, io pagai tutti i debiti che lui aveva lasciato, io, coi proventi della mia professione di notaio. All'opposto, mio fratello il sacerdote, che avevo mantenuto agli studi in Vercelli fino a quando assunse il sacerdozio, consumò sempre ogni suo guadagno in divertimenti, in inutili viaggi in paesi lontani e in altri svaghi di puro lusso e di niun vantaggio. E che dire di mia sorella Cristina? Pur essendo ammogliata, la mantenni con me, nella casa paterna, unitamente alla figlia e feci sempre amministrare da lei la sostanza comune. Non solo, ma si può affermare che ho mantenuto io in stato civile tutta la povera famiglia Cotta; educai infatti io, con grave spesa e ben al di sopra della loro condizione, gli altri tre figli maschi. Li portai a buon punto degli studi; nell'anno della mia morte il maggiore si era già laureato a Pavia, aveva superato l'esame di procuratore ed era prossimo a sostenere quello da notaio; il secondogenito era in Pavia studente di Medicina e l'ultimo in Filosofia. Anche mia moglie Clara finì per dare problemi al mio erede universale; a sette anni dalla mia morte, nel maggio del 1826, fece supplica perché l'ospedale mantenesse l'usufrutto dell'eredità anche nel nuovo stato coniugale. Già..., si voleva risposare con tale Giovanni Barone e nonostante il mio testamento ordinasse espressamente di far cessare l'usufrutto di Lire 1.200 di Milano nel caso di nuovo matrimonio, corrispondendole solo un'ultima somma di Lire 600, lei tentò di mantenere il suo beneficio, assicurando l'Ospedale che, con l'assistenza del futuro marito, a sue spese avrebbe conservato in buon essere i caseggiati, come pure il marito avrebbe coltivato i terreni da buon padre di famiglia. L'Ospedale, nella sua magnanimità, propose di darle vita natural durante Lire 800 di Milano, fate voi un po' i conti, nonostante volesse passare ad altre nozze. Non so se fu per il trascinarsi di queste controversie o per qualche altra ragione, che io ebbi commissionati dall'Ospedale ben due ritratti. Del primo, più antico, non so dirvi l'autore. Del secondo ritratto, nel quale ora mi vedete effigiato, fu decisa la realizzazione quasi un cinquantennio dopo la mia morte, cioè il 13 agosto del 1866. Nella stessa seduta fu determinato di affidare l'esecuzione del mio ritratto, insieme a quella di altri due benefattori vissuti molto dopo di me, Andrea Piana e Salvator Levi. I lavori furono affidati ai pittori Costa e Narducci. Si! Proprio quel Pietro Narducci che tanti benefattori aveva effigiato per la Ca' Granda, l'Ospedale di Milano, e che dal 1841 si era trasferito a Vercelli in qualità di professore di disegno presso il locale Istituto di Belle Arti.
    Played 9m 23s
  • Il fondatore - Card. Guala Bicchieri

    16 NOV 2023 · Voce narrante Alice Monetti Vercellese, del potente casato dei Bicchieri, nel 1186 Guala, molto giovane, divenne canonico di S. Eusebio. La sua carriera religiosa, supportata da una eccellente preparazione giuridica, lo portò presto fuori dai confini nativi, a Bologna, tra Siena e Firenze, a Roma. Cardinale sotto il pontificato di Innocenzo III, fu come suo legato che intervenne in Francia, per trattare gravi questioni con il re Filippo II Augusto e in Inghilterra, per reggere le sorti della monarchia dopo la morte di re Giovanni senza Terra. Ne incoronò il figlio di soli nove anni, Enrico III, sostenendolo contro i baroni ribelli e fu determinante nella stesura della Magna Charta Libertatum, nel novembre 1217, primo esempio di fondamento dei diritti, carta costituzionale. In dono reale, il Cardinale Bicchieri ebbe i beni della chiesa di Sant'Andrea di Chesterton, con le cui rendite finanziò a Vercelli, a iniziare dal 1219, la costruzione della nuova, più grande chiesa abbaziale di Sant'Andrea, sulle spoglie della vecchia chiesa omonima. Cantiere complesso e innovativo, su modello cistercense, ma secondo i nascenti canoni del gotico transalpino, sviluppato con maestranze internazionali, oltreché padane, e sotto vigilanza dell'abate Tommaso Gallo, dei canonici Vittorini fatti arrivare da Parigi, la fabbrica terminerà in un decennio circa. Pochi anni dopo la fondazione della chiesa, il Cardinale vi volle affiancare l' “hospitalis”, “ad receptionem pauperum”, affidandone la cura ai canonici dell'abbazia.
    Played 1m 42s
  • E primo benefattore

    16 NOV 2023 · Voce narrante Alice Monetti Con grande liberalità, il 9 novembre 1223, il Cardinale trasferì i suoi beni di Caresana e Costanzana, per dotare subito la nuova istituzione di una solida rendita fondiaria. L'11 novembre 1224 passò all'Ospedale le terre che aveva acquistato dalla vecchia chiesa di Sant'Andrea. Il 29 maggio 1227 il Cardinale dispose per testamento che la chiesa fosse l'erede universale e che la sua coppa d'oro, i gioielli, gli argenti, le suppellettili e le vesti preziose fossero vendute per l'acquisto di ulteriori immobili a beneficio dell'Ospedale, al quale infine destinò mille marche sterline. Il 31 maggio il Cardinale morì.
    Played 45s
  • Gabriella Calcamuggi Avogadro della Motta

    16 NOV 2023 · voce di Annalisa Canetto “Considerando io l'incertezza di tempo, modo e ora di morire e volendo pria di ridurmi a tale punto disporre delle cose che la Divina provvidenza mi diede ad usufruire su questa terra, ho assiduamente pregato e supplico umilmente il Signor Iddio ad illuminarmi, affinché anche in questo io faccia, come desidero, la sua unica santissima volontà. Quindi ringrazio pria di tutto il Sommo Iddio delle immense grazie e benefizii, che per sua divina misericordia, nonostante tanti miei demeriti, si è degnato sempre di concedermi (compartirmi) nel corso della mia vita”. Così principiai il mio testamento il 13 luglio 1833. Sono Ottavia Gabriella Calcamuggi, nata nel 1772 a Casale da Bartolomeo Calcamuggi e Gaetana Mazzetti. Giunsi a Vercelli dopo il mio matrimonio con il cavaliere maggiore generale Benedetto Avogadro della Motta, di 15 anni più grande di me. Ho vissuto nel palazzo Avogadro della Motta sotto la parrocchia di San Lorenzo, nella casa di mio suocero cav. Stefano Avogadro della Motta. Quando decisi di fare testamento, il 13 luglio del 1833, avevo già perso il mio amatissimo marito e mio figlio Giuseppe. Fui una nobildonna particolarmente devota alle compagnie di Sant'Anna e del Rosario oltre a sostenere le parrocchie di San Tommaso e San Lorenzo. Senza eredi diretti, diedi precise disposizioni riguardo ai miei beni, che legai alle molte istituzioni caritatevoli di Vercelli: all'Opera Pia dei frati della carità di San Lorenzo e a quella di San Luigi, all'Orfanotrofio delle Maddalene, al Collegio delle Orfane e all'Ospizio di Carità, cui lasciai anche l'intero mio palazzo d'abitazione, in quella che oggi si intitola Piazza Alciati lungo corso Libertà. Pensai anche all'Ospedale degli Infermi di Casale, cui destinai la mia cascina Vallara, e alla parrocchiale di Solonghello, paese della mia villa di campagna in Monferrato. Oltre ai miei famigliari, alle mie due care sorelle, suor Carolina e contessa Maria Conzani, e al mio amatissimo nipote Conte Giovanni Calcamuggi di Montalero, non dimenticai le persone cui ero legata da affetto e riconoscenza: al sig. Cavalier Vincenzo Rissico, amministratore dei miei beni, diedi l'usufrutto della mia casa di campagna e di molti altri fabbricati e una pensione vitalizia destinai anche alla mia diletta cameriera Teresa Costanza Pautassi, perché potesse vivere tranquillamente, dopo aver impiegato tante cure a riguardo di mio marito e di tutta la mia famiglia. Anche a Marietta, sua figlia, legai la dote di lire 4.000. Disposi inoltre pagamenti a favore della fattora di campagna, alla cameriera Rollino e al mio servo Antonio Cappa, per la sua esattezza, buona volontà ed affetto dimostratomi sempre nei suoi servizi. Di tutti i miei beni mobili, immobili e denari istituii mio erede universale l'Ospedale Sant'Andrea di Vercelli, cui sarebbe spettato di eseguire tutte le disposizioni sopra ricordate e di erigere e mantenere in perpetuo un letto da incurabile, dopo che fosse cessata una delle pensioni vitalizie. Il letto non sarebbe stato assegnato a “l'apoplettico, all'epilettico, al demente, semi demente o fatuo, ed anche al cieco o d'altrimenti affetto da malattia abbisognante di guida o di particolare assistenza”. Tante e tali erano a quei tempi le limitazioni all'assistenza ospedaliera. Un posto da incurabile fondai il 17 agosto 1839, mentre ero ancora in vita, versando lire 10.000 all'Ospedale. Il primo beneficiario fu il povero vercellese Luigi Francesco Griva. L'apertura del testamento si compì dopo la mia morte, che avvenne alle 10 di sera del 15 giugno 1840, all'età di sessantotto anni, in casa mia munita dei Sacramenti. A fronte del lascito ricevuto, fra cui consistenti fondi di denaro e un patrimonio mobile di valore, oltre a 300 giornate di terra in quel di Desana, Lignana e Casalrosso, l'Ospedale si fece carico della mia sepoltura e di un solenne servizio funebre. Provvide ad acquistare per lire 350 un arco coperto nel cimitero di Vercelli, dove tuttora sono sepolta, e fece realizzare una lapide marmorea con apposita inscrizione, la quale -come recitarono nell'atto deliberativo- “tramandi ai posteri la somma carità e beneficenza della defunta verso le opere pie, più specialmente verso di quest'Ospedale”. E infine decisero di far eseguire questo mio ritratto, che ora state guardando, rappresentandomi ad altezza naturale, il solo, oltre a quello del fondatore cardinale Guala Bichieri, fra i tanti quadri dei benefattori dipinti tutti in più piccolo formato. In questa occasione, giacché esistono altri due miei ritratti a mezzo busto, mi fecero dipingere, nel medesimo anno 1840, da Eusebio Malnate, “or che si trovò in Vercelli -così scrissero- abile pittore all'uopo”.
    Played 6m 38s
  • Filippo Zuccari

    16 NOV 2023 · Voce narrante Ettore Cassetta Nel sottostante portichetto affacciato sulla piazza “Antico Ospedale”, troverete, sul sottarco del secondo pilastro, quel che resta della pittura del mio stemma: una tonda e gialla zucca contornata dalle sue due foglie. Mi chiamo infatti Filippo Zucario o Zuccari, originario di Robbio e sono un cavaliere dell'Ordine Lauretano, preposto alla protezione della Santa Casa di Loreto. Per la realizzazione dello stemma il pittore Giulio Ferrari da Lodi venne pagato con 12 fiorini il 16 luglio del 1606, quando ormai egli aveva concluso -e gli era già stato saldato- il ciclo di diciotto stemmi dei benefattori dell'Ospedale. Insomma, l'affresco della mia arma fu una prontissima aggiunta, voluta dagli Amministratori dell'ente, in segno di riconoscenza all'ingente donazione da me fatta soltanto pochi giorni prima, l'11 luglio. Con tale atto, rogato in Vercelli presso lo stesso Ospedale in presenza dei Signori Regolatori, lasciavo diversi beni, tra terre, cascine e case, da me posseduti in Montonero, alla Cantarana, a Caresana, a Stroppiana e a Gattinara. Donavo altresì le tante proprietà immobiliari in città, ovvero una casa con bottega nella piazza pubblica che oggi chiamate piazza Cavour, sotto il portico nelle vicinanze di S. Michele, un'altra grande casa con tre botteghe, affacciate sulla strada degli Orefici, ora via Gioberti, e persino la mia casa d'abitazione, composta da vari edifici, giardino e pertinenze, posta nel tratto oggi denominato via Foa. Tutti questi possedimenti, insieme a vari censi, ossia redditi, donai con la clausola che se avessi voluto abitare presso l'ospedale, avrei goduto di una camera per dormire, dei pasti e di un medico, di medicine e assistenza, se mi fossi ammalato, e di un'annua pensione di scudi trecentocinquanta. Posi anche degli obblighi verso i frati poveri di San Francesco, la chiesa che ora è intitolata a Sant'Agnese, nella quale stava l'altare della mia famiglia. E soprattutto volli che la mia donazione fosse destinata alla creazione di un apposito luogo, ben separato dalle infermerie, dove ospitare i convalescenti, spesso soggetti a ricadute se dimessi troppo presto; stabilii anche che, se forestieri, dopo la dimissione venisse loro donato qualche danaro oltre le spese per il viaggio, tre fiorini almeno. E non è tutto! In verità, fin dal 16 marzo del 1587, io avevo disposto un testamento, rogato in Pavia, che istituiva ex morte erede universale l'Ospedale di Vercelli, dandogli il peso perpetuo di maritare ogni anno quattro figlie miserabili e probe, fornendo altresì a ciascuna una dote di 150 fiorini in moneta sabauda. Avevo peraltro stabilito molti altri legati, a privati e a chiese della città, che l'Ospedale avrebbe avuto l'obbligo di onorare. Disponevo infine di essere seppellito in San Francesco, davanti all'altare dell'Assunzione, per il quale avrebbero dovuto far dipingere un'ancona della Vergine Assunta. Ebbene, dopo la donazione del 1606, fui così determinato a lasciare tutto il mio patrimonio al venerando istituto, che, con codicillo del 24 settembre 1610, lo liberai dagli obblighi testamentari mediante l'annullamento di tutti gli altri legati, a chiunque li avessi fatti. Morii a Milano il 5 giugno 1620, senza moglie né figli. Aperto il mio testamento, l'Ospedale si trovò accresciuto di ulteriori beni immobili, fra cui una bottega con fondaco e cantina nella piazza grande ora Cavour, sotto il portico dei mercanti, vicino alla chiesa di San Tommaso. Negli anni a seguire pervennero inoltre all'Ospedale tutti i numerosi crediti che io vantavo nei confronti di varie persone e famiglie di Vercelli, Stroppiana, Biella, Viverone e Milano. Così articolato e ricco fu il mio lascito complessivo che Vittorio Mandelli, l'insigne storico vercellese che per circa due decenni a partire dal 1838 fu Segretario e Archivista dell'Ospedale, lasciò tra le carte dell'archivio storico una lunga relazione manoscritta, che descrive e quantifica in Lire di Piemonte della sua epoca le somme ricavate sia dalla donazione che dall'eredità, per un totale generale di Lire 66.261,94, sarebbe a dire tra i 350.000 e i 400.000 Euro odierni.
    Played 5m 4s
  • Modesto Cugnolio

    16 NOV 2023 · Voce narrante Gianluca Mischiatti Io, Modesto Cugnolio, ebbi in sorte di nascere, nel 1863, da un'agiata famiglia della borghesia vercellese, il cui benessere era garantito non da eredità patrimoniali, ma dal lavoro di entrambi i miei genitori: mio padre Pietro orefice, mia madre, Giuseppina Riva, maestra levatrice all'Ospedale di Vercelli. Tale condizione privilegiata mi permise gli studi presso il Collegio dei Barnabiti di Moncalieri, il più esclusivo collegio piemontese, e la laurea in Giurisprudenza presso l'Università di Torino. Molto presto, però, mi orientai, nell'esercizio della mia professione di avvocato, ad operare nella ben diversa realtà del lavoro proletario, sottopagato e sfruttato, e nella difesa dalla persecuzione di chi, come me, contro quella emarginazione combatteva le proprie battaglie ideologiche. Dall'attività forense orientata, ad una vera e propria militanza politica, il passo fu breve. Fui tra i pionieri del movimento cooperativo nell'agro vercellese e delle prime leghe contadine, tra i propugnatori dei primi Circoli del partito Socialista, al quale mi iscrissi dopo che, durante la repressione del 1898, venni incarcerato per tre settimane. Fui tra i promotori della fondazione della Camera del Lavoro di Vercelli, nel 1901, e mi posi alla guida di agitazioni e scioperi contro le disumane condizioni in cui erano lasciati i lavoratori del settore agrario e, in particolare, le lavoratrici della risaia. Mi parlava 'n dialot par femi capì ansema ai me' cuntadin. Fondai il giornale “La Risaia”, organo di lotta politica e voce alternativa alle altre testate vercellesi, “La Sesia” liberale e “L'Unione” cattolica. Profusi tutto il mio tenace impegno per giungere a ottenere le otto ore lavorative, sia a livello istituzionale, perché fosse rispettato il Regolamento Cantelli già esistente che limitava le ore in risaia, che nelle dure battaglie sul campo, con la mobilitazione di contadini e mondine. E nel 1906, l'anno di grandi scioperi, si arrivò al conseguimento dell'importante obiettivo, peraltro qui a Vercelli senza gli episodi cruenti di altre situazioni. Fui membro della Stazione Sperimentale di Risicultura, consigliere comunale e provinciale e infine, eletto nel 1913, deputato al Parlamento italiano, dal quale non cessai di occuparmi della realtà agraria e del lavoro in risaia. Mi distolse soltanto la mia morte improvvisa, a Roma, per un attacco di polmonite, il 18 marzo del 1917. I miei funerali si svolsero a Roma e a Vercelli, dove la folla immensa della mia amata umile gente si riversò per l'estremo saluto, prima della tumulazione nella tomba di famiglia nel cimitero di Biliemme. Avevo dato disposizioni precise per le mie esequie fin dal 1910, quando nel mio testamento avevo scritto: “Non voglio preti né funerali religiosi, solo funerali civili e i miei contadini, perché abbiano esempio di non lasciarsi turlupinare dai preti. Dio non ha bisogno di uomini che servano da intermediari tra noi e lui. Egli vede e giudica le opere e le intenzioni. Affronto tranquillo l'aldilà se esiste, non avendo mai fatto male scientemente ad alcuno”. Nel testamento avevo nominato miei eredi alcuni parenti, ma avevo lasciato l'usufrutto di tutti i beni, compresa la mia casa d'abitazione, alla mia ottima e fida cameriera Elisabetta Chiavario, cara Bettina, che fu con me nella buona e mala ventura. Alla sua morte l'Ospedale di Vercelli avrebbe prelevato dal suo patrimonio 15.000 Lire, per istituire a nome di mia madre un posto di cronico per una donna. Ciò accadde nel 1946, quando però l'insufficienza del reddito lasciò sospesa la fondazione del letto. La mia presenza in questo luogo di memoria dei benefattori e della storia ospedaliera, grazie al ritratto dipinto da Ferdinando Rossaro, si fonda comunque nel mio intenso legame con tale ente, del quale fui per parecchi anni, prima dell'impegno romano, uno degli amministratori. Del resto, come avrei potuto, nella mia esistenza spesa per i più poveri, non occuparmi della secolare istituzione che provvedeva alla cura e all'assistenza degli degli ammalati e degli inabili indigenti?
    Played 5m 6s
  • Chiara Bussi in Carbone

    16 NOV 2023 · voce narrante Aisling Lenti Ritratti di Ferdinando Rossaro! Era il 1919... Che belli questi ragazzi, Lina, un dolce volto incorniciato da lunghi capelli biondi, e Dino, dall'aria scanzonata... Le iscrizioni sui due dipinti li dicono “benefattori”, ma non sono loro ad aver donato all'Ospedale l'ingente somma di 45.000 lire, che oggi corrisponderebbe alla gifra di 75.000 Euro circa; fui io, Chiara Bussi, la donatrice e loro sono i miei amatissimi figli. Non ho voluto essere io l'effigiata, non mi importava di dar memoria del mia generosità. Invece tenevo a che Carolina e Dino fossero consegnati per sempre alla vista dei posteri; una sorta di immortalità volli creare per loro, come per mio marito, Edoardo Carbone, anche lui ritratto in un terzo dipinto. E' stato un gesto di opposizione, il mio, alla nuda realtà della loro prematura scomparsa, un risarcimento all'agonia della loro perdita. Se ne andò per prima Lina, nel 1904, a soli 12 anni. Fu terribile, ma la vita continuò; avevamo il piccolo Dino, cinquenne da far crescere, e mio marito il suo prezioso lavoro di argentiere. Nel 1909 ci trasferimmo dall'abitazione in Casa Pasta, agli inizi della via Duomo, all'abitazione in via Antonio Borgogna, davanti al museo, annettendo ad essa il laboratorio di argenteria. Fu nel 1918 che Edoardo, all'età di 56 anni, morì. Ebbene Dino, avendo imparato il mestiere da mio marito, avrebbe proseguito l'attività in proprio... Invece no, tre mesi soltanto passarono, in quell'anno infame, che il mio Bernardino, era il 30 di agosto e lui aveva 19 anni, raggiunse il padre e mi lasciò sola. Era il 3 ottobre quando scrissi all'Ospedale di voler costituire un posto da incurabile e due da cronico, intitolandoli ai miei familiari. Che altro la mia disperazione poteva fare, se non virare in carità cristiana i forti sentimenti che avrebbero finito per lacerarmi? In perpetuo ora vivranno nella vostra ammirazione. Quanto a me, morii proprio in Ospedale nel 1925 e da allora sono finalmente, di nuovo, in loro compagnia.
    Played 3m 38s
  • Fratelli Canicani

    16 NOV 2023 · Voce narrante Sandro Gino Volli recarmi di persona alla congregazione dell'Ospedale, nella sua seduta del 13 ottobre 1746, per annunciare la mia volontà di istituire, l'anno successivo, un letto da incurabile, donando per esso la somma di Lire 5.000 e avendone avuto autorizzazione dal vescovo di Vercelli, Monsignor Gian Pietro Solaro. Sono Don Giuseppe Antonio Canicani, parroco della chiesa, non più esistente, di San Giacomo, che stava in fondo all'attuale via San Cristoforo, nei pressi del Parco Camana. Accanto a me, nel ritratto come nella vita, è Giovanni Nicola Bernardino, mio fratello di dieci anni maggiore di me. Era uno speziale, con casa e bottega sotto la Parrocchia di San Tommaso, chiesa che era collocata all'imbocco della piazza Maggiore, ora Cavour, sulla destra venendo dall'attuale corso Libertà. Nel testamento da me fatto nel 1743, avevo nominato Bernardino mio erede universale e avevo lasciato i beni della mia casa ai coniugi Anna Maria e Giovanni Enrico Bremio, perpetua e custode della mia chiesa, nonché fedeli assistenti anche nelle mie frequenti infermità. Quando mi recai alla congregazione dell'Ospedale, mio fratello però era morto da pochi mesi e da pochi giorni mi ero occupato io della vendita della licenza e della sua bottega di speziale. Dunque, nel novembre 1746, mentre ero a letto infermo, rifeci testamento. Nominai mia erede universale Anna Maria Bremio e istituii, nel medesimo rogito, il letto da incurabile, anzi ne raddoppiai il numero e la somma capitale; destinai pertanto Lire 10.000 per il mantenimento perpetuo dei due letti, riservandoli alle sole donne incurabili, preferibilmente residenti nella mia parrocchia, o in San Tommaso, o in San Lorenzo, o comunque vercellesi. Sempre riguardo all'assegnazione dei letti, inserii intenzionalmente una clausola contraria al regolamento dell'Ospedale, il quale escludeva dal ricovero a vita gli infermi non vedenti. Infatti, feci obbligo di accogliere, qualora lo avesse voluto, la figlia della mia erede Anna Maria, ovvero Maria Teresa Bremia, affetta da totale cecità. Aggiunsi al danaro la disponibilità dei miei beni posti nel territorio di Stroppiana, affinché il ricavato della loro vendita venisse dall'Ospedale impiegato come censo perpetuo, a titolo di dote di Lire 100 di Piemonte cadauna, per tante povere giovani vercellesi. Altre donne beneficiai nel mio testamento, lasciando loro i molti crediti che io avevo ancora in sospeso. Infine, predisposi ulteriori lasciti alle chiese cittadine di San Giacomo, Santa Caterina, Sant'Andrea e del Duomo, e agli ospedali torinesi dei Santi Maurizio e Lazzaro e della Carità. Il mio stato di salute andava peggiorando; il primo febbraio 1747 volli ancora, con apposito codicillo, precisare ed estendere a numerose altre persone i miei benefici. Morii il 2 febbraio 1747, all'età di 60 anni, presso la mia casa parrocchiale e fui sepolto nella mia chiesa di San Giacomo, per espressa mia volontà testamentaria. L'Ospedale recepì presto le mie disposizioni e fece stimare il patrimonio immobiliare di Stroppiana, che risultò di Lire 6.271. Circa tre anni dopo, nel 1750, commissionò il bel dipinto, che mi ritrae con il mio caro fratello, al pittore Giuseppe Tarchetti. Di lui alcune opere si possono ammirare nella sconsacrata chiesa di San Vittore, aperta in occasione di eventi culturali.
    Played 4m 38s

Looks like you don't have any active episode

Browse Spreaker Catalogue to discover great new content

Current

Podcast Cover

Looks like you don't have any episodes in your queue

Browse Spreaker Catalogue to discover great new content

Next Up

Episode Cover Episode Cover

It's so quiet here...

Time to discover new episodes!

Discover
Your Library
Search