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Poesie lette e spiegate da Mamù - Mattia Murgia
15 OCT 2021 · Voglio ringraziarVi dal profondo del cuore per tutta l'attenzione e l'ascolto che state donando al mio giovanissimo canale, e per l'enorme numero di “mi piace” con cui state tempestando la mia pagina Facebook https://www.facebook.com/mamupoet/!
Voglio ringraziarVi anche per l'acquisto del mio libro sulle varie piattaforme online: è proprio da una lettrice che mi è arrivata la richiesta di leggere qualche poesia del mio primo libro. Ho deciso di scegliere quella che risponde alla domanda “che cos'è la poesia?”, secondo me. E per farlo non parlerò in prima persona, ma, rifacendomi alla teoria del daimon di Socrate, parlerò di Mamù, come se fosse, ed effettivamente io credo che sia, qualcosa di diverso da me, da Mattia Murgia. Socrate infatti nel dialogo platonico “Ione”, e tra l'altro in modo critico nei confronti dei poeti e soprattutto dei rapsodi, sostiene che nella composizione poetica non siano gli esseri umani a esprimersi, bensì gli dèì, o per usare un termine greco, i daimon, che si impossessano della voce e del corpo dei poeti per esprimersi.
Ora, onestamente non credo che alcun dio greco abbia più o meno momentaneamente occupato il mio corpo per comporre le mie poesiuole. Ma credo che Mamù sia una parte di me, una parte diversa, a cui io, quando essa ha bisogno di esprimersi, presto corpo, cuore e parole per farlo. Ed è per questo che ne parlo in terza persona.
Non è per tirarmela insomma ;)
Mamù in questa poesia immagina di discutere la risposta con vari personaggi: l'uomo del monte, ovvero il montanaro; poi con delle badesse. Con “badessa” solitamente si intende la madre superiora di un monastero di monache nella religione cristiana: in tal caso, la metafora per esprimere l'idea di poesia non poteva che riferirsi al trascendente. Mamù infatti risponde alla domanda iniziale dicendo che la Poesia per lui è un mistero, qualcosa di inspiegabile, che trascende la comprensione razionale, come la Rivelazione va oltre la comprensione umana. Con Platone, il grandissimo filosofo greco che ha sostenuto la dottrina delle idee, Mamù si mostra alquanto impertinente: Platone, nel dialogo “Ione” e ancor di più nella “Repubblica”, fornisce un ritratto a tinte fosche della Poesia e dei Poeti, in quanto non sarebbero in grado di indirizzare al vero, e dunque al buono e al giusto.
Mamù allora, fingendo per un attimo di discutere con Platone in persona, dice che la Poesia, quantomeno la propria, estemporanea e non legata ad altro che al momento presente, non è imperitura, cioè immortale, sottintendendo dunque che non vi sia la necessità di attaccarla come fa nei suoi dialoghi, perché appunto non rappresenta le idee in sé, ma qualcosa di estremamente pratico e legato alla soggettività dell'autore e al momento presente. Perché dunque dovrebbe preoccuparsene un così grande filosofo? Eppure, commenta malignamente Mamù, le tue glosse sulla poesia sembravano così sensate! Le glosse presso gli antichi greci erano delle espressioni antiche o ricercate che avevano bisogno di una spiegazione, mentre dal medioevo in poi intendiamo con “glossa” una nota di spiegazione, magari per un passo particolarmente difficile di un testo.
Alla fine Mamù si rivolge direttamente al lettore, o, in questo caso, all'ascoltatore, dicendogli che secondo lui la poesia non è l'odio in sé o l'amore in sé, ma nemmeno una coltrice, cioè un letto sul quale addormentarsi perché magari è più utile a conciliare il sonno che a divertirsi... Per Mamù la Poesia è... ascoltate e lo scoprirete!
Se quel del monte
chiedesse
cos’è una poesia
io gli direi ch’è una fonte
che porta tristezza e allegria.
Se le badesse
d’un gran monastero
facesser lo stesso,
io lor direi ch’è come spesso
Lui par loro un mistero.
Se invece fosse
Platone
a indagar su quella natura,
io gli direi: - non è imperitura! -
eppur le tue glosse
parevan sì buone.
Ma tu, lettrice,
lettore,
né odio né amore
né pura coltrice
è davver la Poesia:
è solo la voce dell’anima mia...:)
Tratto dal libro “Giovani Parole d'Amore e d'Accordo” di Mamù – Mattia Murgia
https://www.amazon.it/dp/B08MSS9G6W
https://www.ibs.it/giovani-parole-d-amore-d-ebook-mattia-mamu-murgia/e/9791220216425
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Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.
30 SEP 2021 · Ho passato anni a odiamare, amodiare, non so in quale modo altro descrivere il mio sentimento, Giacomo Leopardi.
Forse perché mi sono lasciato anche io ingannare dal ritratto di, diciamocelo, sfigato, che gli hanno costruito attorno. Ma forse anche perché non lo avevo compreso sino a fondo, né sono sicuro di averlo compreso totalmente ora.
Di sicuro però una cosa l'ho capita: è profondamente ingiusto che non sia annoverato oltre che fra gli scrittori più illustri d'Italia e del mondo anche tra i migliori filosofi.
Perché, per essere schietti, Giacomo Leopardi la testa la usava eccome. Magari anche troppo, e per questo anziché seguire solo il suo istinto, così sensibile, portato all'affetto e propenso alla compassione, si è lasciato sopraffare dalla ragione, almeno letterariamente, regalando ingiustamente ai suoi contemporanei l'immagine di un ragazzo triste e preoccupato.
In realtà Giacomo, voglio chiamarlo così, come se fosse un amico, un coetaneo, visto che ormai non sono molti gli anni che mi separano dall'età della sua morte, dicevo, Giacomo aveva un sottilissimo e assai pungente senso dello humour, che si riscòntra specialmente nelle sue operette morali. Per citarvene una, io ho adorato il “Dialogo di un folletto e di uno gnomo”.
Vi consiglio assolutamente di ripescarvelo, e mi riprometto di metterlo in scena insieme ad altri dialoghi se trovassi un produttore capace di comprendere l'operazione.
In essa si narra di un folletto e uno gnomo appunto, i quali si incontrano dopo l'estinzione dell'intero genere umano: mentre lo gnomo sembra preoccupato che non si trovino più giornali con i quali aggiornarsi su ciò che avviene nel mondo, il folletto lo sbeffeggia, cercando di persuaderlo che ormai, senza gli uomini sulla terra, non c'è più nulla su cui aggiornarsi specie perché grazie alla scomparsa degli umani non ci sono più guerre. Lo gnomo allora, compresa la novità, dichiara che gli piacerebbe se uno o due umani risuscitassero solo per notare come tutto il mondo vada avanti anche senza il genere umano, a differenza della loro presunzione che il mondo fosse “fatto e mantenuto per lor soli”.
Ma il lascito per me più importante di Giacomo è certamente “La ginestra”.
Quando dico “più importante per me”, non intendo che a mio parere sia la più importante, non ho né competenze né titoli per dirlo, ammesso che qualcuno li abbia, ma intendo proprio che questa poesia mi ha cambiato, mi ha portato a crescere e la porto nel profondo.
Anche se non condivido in toto la premessa, e cioè che la natura sia matrigna per gli uomini, concetto da cui deriva il pessimismo di Leopardi, mi ha colpito la conclusione alla quale, quasi congedandosi dai suoi lettori, giunge Giacomo. Egli infatti reputa che sia importante prendere atto dell'infelicità dell'uomo, ma non per diventarne vittime, bensì perché, supportandoci l'uno con l'altro, cerchiamo di alleviare le sofferenze che la natura matrigna, dalla nascita alla morte, ci ha assegnato. A ispirargli questa riflessione è un'umile ginestra sulle pendici di un vulcano: questa infatti, nonostante la rovina derivante dall'eruzione sia costantemente dietro l'angolo, non si illude su improbabili futuri, né tanto meno si piega vilmente davanti al destino che incombe.
Per questo motivo, io ho sempre percepito “La ginestra, o il fiore del deserto” anche come un inno a vivere nel presente.
16 SEP 2021 · Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i malleoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
La pioggia nel pineto – G. D'Annunzio
9 SEP 2021 · Balilla, divino monello, tu balzi,
foriero improvviso di un’ira
pugnace; col braccio fermato
nell’atto fugace per sempre t’inalzi.
In gesto di prode si muta il trastullo
dell’esile mano che il ciottolo scaglia;
si muta in araldo di strana battaglia
l’inconscio fanciullo.
Balilla, io sono uno che passa e che vede
da presso tradotto nel vero, un lontano
suo sogno... Oh la scuola del borgo montano!
Che febbre, che fede
nel nome del fiero, del baldo fratello,
scoteva ai crescenti l’intrepido ingegno!
Che invidia pel sasso lanciato a buon segno
dal maschio monello!
Dovunque si spiega l’italica terra
tu parli ai fanciulli di audacie non dome.
C’è un inno in Italia che squilla il tuo nome
tra nomi di guerra.
Nell’alte vallate guardando i nevai,
marciando in pianura fra i grani ed i fieni,
lo cantano i cori dei figli sereni.
Balilla, lo sai?
Or fuso del bronzo nell’epiche tempre,
rivive qui l’atto che irruppe e che vinse.
Il motto che allora gridasti: «Che l’inse?»
qui parla per sempre.
Fu rapido il gesto, ma in subita gloria,
quel sasso lanciato da un piccolo scalzo
ferì la sua meta, die' un vivo rimbalzo,
passò nella storia.
A differenza di quanto qualcuno potrebbe, fraintendendo, credere, questa poesia non ha nulla a che fare con il fascismo, che tentò a più riprese di impossessarsene, cercando di corrompere l'animo dell'autore, che oppose sempre un fiero rifiuto a tali profferte.
Giovanni Bertacchi prese infatti pubblicamente posizione contro il fascismo nel 1936 lasciando anticipatamente la cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di Padova. Ma già nel 1924 aveva aderito alla lista di opposizione costituzionale al fascismo, e anche per questo motivo durante il ventennio molti editori evitarono di pubblicare le sue opere.
Nel link di seguito potete trovare maggiori dettagli in proposito: http://giovannibertacchi.blogspot.com/2015/02/guido-scaramellini-la-ribellione-mite.html
Ma allora, qualcuno si starà chiedendo, chi è tale Balilla di cui parla il poeta in questa poesia del 1906, quindi parecchi anni prima del concepimento del fascismo?
Balilla era un ragazzo Genovese, identificato poi con tale Giovan Battista Perasso, dalla cui azione ebbe inizio la rivolta popolare contro l'esercito Austriaco che in quel momento occupava Genova nel contesto della guerra di successione Austriaca.
Pare che al grido di “che l'inse?”, e cioè, pare, ma qualche Genovese mi corregga se sbaglio, “Che faccio, inizio?” sottintendendo “la rivolta”, Balilla abbia scagliato una pietra verso l'esercito Austro-Piemontese (allora i Piemontesi erano alleati all'Austria, mentre Genova era alleata con Francesi e Spagnoli) dando inizio alla rivolta che portò alla cacciata dell'esercito austriaco, uno dei più potenti in Europa in quel momento.
Questo per ricordarci che un popolo unito, fiero e indipendente è capace di qualsiasi cosa.
Bertacchi, ispirato dal monumento dedicato al ragazzo, nel 1906 scrisse dunque la poesia per il monello “divino” capace di un'improvvisa ira guerriera.
Con braccio fermato in quella posizione statuaria, dice, si innalza per sempre. Quello che poteva essere un semplice gioco, un sasso, nelle mani esili di quel ragazzo si trasforma in un gesto coraggioso; il giovane, ignaro di ciò che avrebbe scatenato, si è trasformato in un araldo capace di ispirare i suoi concittadini.
Balilla, continua il poeta, io sono uno che passa e che vede grazie alla statua quella che era solo immaginazione. Riesce a visualizzare l'eccitazione, e l'aumentata fiducia del popolo grazie all'azione dell'orgoglioso e intrepido giovane concittadino. Addirittura il poeta prova invidia per il sasso lanciato dal “maschio monello”!
In tutta l'Italia, Balilla, tu parli ai tuoi coetanei di arditezza non domata.
C’è un inno in Italia, il Canto degli Italiani, che elenca il tuo nome tra altri di guerra. Sai che lo cantano i cori dei bambini nelle alte vallate, guardando i nevai, e camminando in pianura fra il grano ed il fieno?
Ora, impresso nel bronzo, rivive l’atto che irruppe e che permise la vittoria dei Genovesi.
Il motto che allora gridasti, «Che l’inse?», qui, grazie alla statua, parla per sempre.
Quel gesto fu rapido, ma quel sasso lanciato da un piccolo scalzo si tramutò subito in gloria dando la carica per la ribellione, e passò così nella storia.
Chi sa se un nuovo Balilla sta ascoltando in questo momento il suo futuro.
3 SEP 2021 · Ci fa compagnia tutte le estati, e c'è chi le ha dedicato addirittura le sue poesie: no, non parlo dell'umidità né della calura estiva, bensì della zanzara.
Già l'epigrammista greco Meleagro aveva evocato le zanzare, prima affinché lasciassero dormire in pace la sua amata Zenofila, e poi affinché le portassero un messaggio d'amore mentre stava con un altro amante.
Ma oggi ripeschiamo un'altra poesia da quel bizzarro periodo che fu il barocco.
Giovan Francesco Maia Materdona scrisse infatti un componimento dedicato a una zanzara: in esso, il poeta paragona l'insetto a una tromba che vaga per l'aria, a un rumore animato, che si poggia talvolta solo per ferire, e che rappresenta il turbamento nell'ombra e nel riposo. Un animaletto che vaga per il cielo notturno. Si rivolge a questo “frèmito alato”, cioè appunto alla zanzara, affinché la smetta di impedirgli di riposare. Infatti, dice il poeta, non c'è bisogno di ronzare così fastidiosamente affinché egli non dorma, perché lui è già in dormiveglia per un semplice motivo: non è l'amante della persona che ama.
Chiede pertanto alla zanzara di recarsi piuttosto da chi non l'ama, da chi lo disprezza, e di usare contro essa tutte le armi possibili: il suo suono fastidioso, le sue punture e la sua aggressività.
In questo modo, dice il poeta alla zanzara, ti potrai vantare di aver punto quella che Amore in persona non riuscì mai a colpire e ferire con la sua freccia dorata che fa innamorare chiunque. Tranne, evidentemente, la donna di cui il poeta è innamorato.
Animato rumor, tromba vagante,
che solo per ferir talor ti posi,
turbamento de l’ombre e de’ riposi,
fremito alato e mormorio volante;
per ciel notturno animaletto errante,
pon fréno ai tuoi sussurri aspri e noiosi;
invan ti sforzi tu ch’io non riposi:
basta a non riposar l’esser amante.
Vattene a chi non ama, a chi mi sprèzza
vattene; e incontro a lei quanto più sai
desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza.
D’aver punta vantar sì ti potrai
colei, ch’Amor con sua dorata frezza
pungere ed impiagar non poté mai.
Foto di Jomar Junior da Pixabay
31 AUG 2021 · Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all'Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpèstri, che sapor d'acqua natia
rimanga ne' cuori èsuli a conforto,
che lungo illuda la lor séte in via.
Rinnovato hanno vérga d'avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh'esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l'aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestio, dolci romori.
Ah perché non son io cò miei pastori?
Gabriele D'Annunzio
Foto di flickr.com/photos/armyamber/sets
30 AUG 2021 · Capita che una persona, dopo aver passato molti anni felicemente, in pochissimo tempo si inizi a lamentare e a soffrire; capita anche che qualcuno, importante per fama o per nobiltà, piombi in un momento solo nell'oscurità, non venga più riconosciuto.
Non c'è una sola cosa mobile, cioè mutevole, sotto il sole, che non sia vinta dalla morte o cambiata dalla sorte.
Con queste parole, ma in versi, come Vi leggerò fra pochissimo, inizia la raccolta delle rime di Michelangelo Buonarroti.
Sì, proprio quel Michelangelo. Il poliedrico artista fu autore di diverse rime, anche se considerava la composizione delle stesse una “cosa sciocca”, e si contraddistinse dal petrarchismo dilagante nel Cinquecento, componendo poesie intensamente espressive.
Molti anni fassi qual felice, in una
brevissima ora si lamenta e dole;
o per famosa o per antica prole
altri s'inlustra, e 'n un momento imbruna.
Cosa mobil non è che sotto el sole
non vinca morte e cangi la fortuna.
Edizione commentata a cura di Enzo Noè Girardi, “Rime”, Ed. Laterza, Bari, 1960
26 AUG 2021 · Come promesso, analizziamo in questa puntata il testo utilizzato da Bartolomeo Tromboncino per la sua frottola, ispirato al sonetto di Francesco Petrarca che abbiamo incontrato la scorsa volta. In basso trovate il link a una interpretazione cantata di questa frottola.
Anche questo componimento inizia con lo Zefiro che spira e riporta il bel tempo. L'amore promette gioia agli animali, agli esseri viventi; la vasta campagna è piena di bei fiori, ogni cuore si prepara alle dolci frecce del dio d'Amore, addirittura Progne, la rondine, di cui abbiamo parlato nella scorsa puntata, in questa poesia si è scordata della antica pena e spiega le ali verso il nostro orizzonte; sappiamo tutti infatti che quando tornano le rondini sta arrivando la primavera.
Tuttavia, all'improvviso, il compositore sottolinea che tutti vivono contenti mentre lui si lamenta per il fatto che Amore l'ha fatto sede di tormento.
L'atmosfera sembra tornare tranquilla, e il poeta ci ripete che soffia lo Zefiro e ci dice che gli alberi si riempiono di foglie; ai satiri risponde Eco, se capita che qualcuno chiami l'amata ninfa.
Gli altri possiedono il cielo mentre lui ha dentro l'inferno, perché, dice lo scrittore, Amore, crudele, ha reso il suo male eterno.
Zephyro spira e ‘l bel tempo rimena
Amor promette gaudio a gli animali
L’ampia campagna dei bei fiori è piena
Ogni cor si prepara ai dolci strali
Progne scordata de l’antica pena
Verso il nostro orizzonte spiega l’ali.
Ognun vive contento io me lamento
Ch’amor m’ha fatto albergo di tormento
Zephyro spira e gli arbori di fronde
Adornano soi densi e sparsi rami,
A satiri tra boschi echo risponde
s’ avien che alcun l’ amata ninfa chiami.
Scorreno fiumi rei con veloce onde
Tanto che sazian le sue antique arame.
Altrui possiede ‘l ciel ed io l’inferno,
ch’Amor crudel fatto ha ‘l mio male eterno.
https://www.youtube.com/watch?v=MT1fGIf3y78
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19 AUG 2021 · Citando lo Zeffiro nella scorsa puntata, mi è tornato in mente un sonetto di Francesco Petrarca, il quale è stato musicato da diversi artisti, talvolta con alcune modifiche, tra i quali anche Monteverdi.
A me piace molto la versione di Bartolomeo Tromboncino, di cui parleremo la prossima volta.
Con questa poesia Petrarca vuole contrapporre la gioia e l'euforia della natura e degli uomini per l'arrivo della Primavera con i sentimenti che tormentano invece la sua interiorità. Laura infatti, la donna amata dal poeta, è morta, ed egli sembra non trovare più alcuno stimolo piacevole nemmeno nella bella stagione.
Il componimento inizia parlando appunto dello Zefiro che inizia a farsi sentire riportando la bella stagione, così come i fiori e l'erba, insieme al garrire di Procne, detta Progne da Petrarca, cioè della rondine e il pianto di Filomena, cioè dell'usignolo, e rinnovando la primavera con i suoi colori che vanno dal bianco al rosso.
Secondo la leggenda Tereo, marito di Procne, da cui aveva avuto il figlio Iti, si invaghì anche della sorella di Procne, Filomela, e per questo motivo disse a Filomela che la sorella, cioè sua moglie, era morta e si unì a lei. Dopo aver approfittato di lei, la nascose in campagna e le mozzò la lingua. Tuttavia Filomela riuscì a tessere un messaggio su un mantello, rivelando così a Procne quanto successo. Quest'ultima riuscì a trovare la sorella, uccise il proprio figlio Iti, lo diede in pasto a Tereo, ignaro, e scappò con la sorella. Tuttavia Tereo le inseguì, sinché le due sventurate non pregarono gli dei di essere tramutate in uccelli, e furono appunto esaudite. Anche Tereo venne tramutato in un volatile, precisamente in un upupa.
Tornando alla poesia, l'autore sottolinea come i prati ridano e il cielo si rassereni, Giove si rallegri di rimirare sua figlia, Venere, dea dell'Amore, Amore evidentemente più sollecitato dalla Primavera; l'aria, l'acqua e la terra sono piene d'Amore e ogni essere vivente è pronto a dedicarsi all'amore.
Al poeta però, lasso, cioè misero, tornano i sospiri infelici che trae dal cuore colei che si portò le chiavi del suo cuore al cielo, Laura appunto, morta. E gli uccellini che cantano, e i campi che fioriscono, e gli atti soavi delle belle donne sono per lui come un deserto e belve fiere e selvagge.
Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena,
e i fiori e l'erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Filomena,
e primavera candida e vermiglia.
Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena;
Giove s'allegra di mirar sua figlia;
l'aria e l'acqua e la terra è d'amor piena;
ogni animal d'amar si riconsiglia.
Ma per me, lasso, tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch'al ciel se ne portò le chiavi;
e cantar augelletti, e fiorir piagge,
e 'n belle donne oneste atti soavi
sono un deserto, e fere aspre e selvagge.
14 AUG 2021 · Tutti conoscono le celeberrime Quattro Stagioni di Vivaldi.
Tuttavia non tutti sanno che proprio al Prete Rosso, come era soprannominato Vivaldi per il colore dei suoi capelli, sono da alcuni attribuite anche le poesie che accompagnano ciascun concerto.
Oggi leggiamo la poesia dedicata all'Estate, in cui ritroviamo un altro aspetto di quell'epoca artisticamente un po' bizzarra che abbiamo già incontrato, il Barocco, e cioè la descrittività.
In “Estate” infatti il poeta ci racconta del languore, cioè della spossatezza, di uomini, piante e animali, come il cucco, cioè il cuculo.
A un certo punto ci narra come, mentre soffia dolcemente Zeffiro, vento di ponente da sempre richiamato piacevolmente come marchio della primavera nella pittura e nelle poesie, Borea lo minacci, e il pastorello pianga per questo, temendo per la sua vita, messa a rischio da un'eventuale burrasca. Il timore di lampi e tuoni potenti toglie alle sue stanche membra, al suo corpo, il riposo, e lo fa stare sveglio anche lo stuolo furioso e noioso di mosche e mosconi, evidentemente agitato per l'incipiente tempesta.
Purtroppo, con l'ultimo movimento, in tempo di Presto, il pastorello scopre che i suoi timori sono veri, e infatti arrivano la grandine, i tuoni e i fulmini, che spezzano le spighe già alte e cresciute.
E se ascoltate il terzo movimento dell'Estate, ritrovate delle note che si inseguono come una goccia dopo l'altra.
In basso, oltre al testo, Vi lascio oggi il link dei testi e delle musiche.
(Allegro non molto)
Sotto dura stagion dal sole accesa
Langue l’huom, langue ‘l gregge, ed arde ‘l pino,
Scioglie il cucco la voce, e tosto intesa
Canta la tortorella e ‘l gardellino.
Zeffiro dolce spira, ma contesa
Muove Borea improvviso al suo vicino;
E piange il Pastorel, perché sospesa
Teme fiera borasca, e ‘l suo destino;
(Adagio)
Toglie alle membra lasse il suo riposo
Il timore de’ lampi, e tuoni fieri
E de mosche, e mosconi il stuol furioso:
(Presto)
Ah che pur troppo i suoi timor son veri
Tuona e fulmina il cielo grandinoso
Tronca il capo alle spiche e a’ grani alteri.
Concerto “L'Estate”: https://www.youtube.com/watch?v=RvDt_KtOzbc
Le Quattro Stagioni: https://www.youtube.com/watch?v=1PMUf_m7JXg
Le Poesie a lui attribuite: https://www.bostro.net/poesie/poesia.asp?id=66
Poesie lette e spiegate da Mamù - Mattia Murgia
Information
Author | Mamù - Mattia Murgia |
Organization | Mamù - Mattia Murgia |
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