30 JAN 2022 · Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di Parole in Viaggio
Come tutti gli anni, anche il 2022 è iniziato con la giornata mondiale della pace, che si celebra il 1° gennaio, ovvero l’intenzione di iniziare ogni anno all’insegna del rispetto dei diritti umani.
Pace di per sé richiama il suo opposto, la guerra, parola che non riprende il latino bellum, quanto invece un’origine germanica che rappresenta la mischia, l’azzuffarsi.
È curioso come il senso originale richiami un concetto di conflitto fondato sul disordine, sul non coordinamento tra eserciti: il riferimento è il paragone tra come Roma da una parte e i popoli barbari dall’altro affrontavano la guerra. Ordine e disciplina contro mischia e disorganizzazione. Rimane quindi un concetto di confusione, di guerra intesa come avanzamento di un esercito che non riesce a coordinarsi. La storia poi ci ricorda che tra i due schieramenti, romani contro barbari, furono i secondi a prevalere, non soltanto a livello di vittoria finale, bensì anche come ripercussione linguistica. Della parola latina bellum è rimasto solo qualche aggettivo, mentre il sostantivo guerra riprende la matrice germanica; di conseguenza, si trascina con sé anche il suo significato, una guerra fatta di disordine, di mischia, di caos.
dall’altro lato invece il suo opposto, la pace, crea una condizione completamente diversa. La sua etimologia rimanda al verbo latino pango, che significa conficcare, piantare, ma anche nello specifico fissare i confini. Fa riferimento a quei paletti, o alle pietre, che delimitano i confini delle proprietà. Segnano la fine di un terreno e l’inizio dell’altro. Diventano la strategia per evitare contese tra confinanti, l’elemento che tranquillizza le possibili agitazioni. E proprio questa è la funzione della pace, trovare un accordo che riconosca e sia riconosciuto da entrambe le parti, un paletto che va conficcato esattamente nello spazio che non appartiene né all'uno né all’altro, un’area che assume un significato che va oltre il mero valore della terra, perchè è lo spazio di tutti ma senza uno specifico proprietario, è quello spazio che ferma la mischia e il caos e rende visibile la convivenza e i confini.
anche confine meriterebbe un breve approfondimento, perchè il dizionario lo definisce come “la zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano quelle differenzianti”. in altre parole, siamo abituati a pensare al confine come qualcosa che divide, che separa, che differenzia ciò che sta al di qua da ciò che sta al di là, quasi a mantenere alta l'attenzione e sorvegliare che il diverso da noi non si avvicini. addirittura siamo arrivati a creare il confino come luogo in cui mandare in esilio coloro che non seguivano le regole.
eppure, nella lingua originale, confine ha un significato differente. Se è vero che in latino finis è il limite, il confine appunto, è anche vero che con il prefisso cum cambia la prospettiva e diventa semplicemente il vicino, il limitrofo, il contiguo, ma anche l’affine e il simile. Svanisce la diversità, svanisce la distanza, anzi, è proprio la presenza di un limite a unire chi sta al di qua con chi sta al là, ovvero è esattamente l’essenza della pace, far sentire vicini e affini chi per qualche motivo si sentiva lontano e diverso
Che sia il 2022 un anno fatto di confini che uniscono, che sappiano mostrare il valore e la bellezza delle nostre fragilità e che ci facciano sentire vicini proprio grazie alle nostre diversità
in ordine di esecuzione abbiamo ascoltato
La guerra di Piero di Fabrizio De André
Uguali e diversi di Gianluca Grignani
tutte le riproduzioni musicali coperte da diritto d’autore sono state eseguite per fini didattici e senza scopo di lucro, secondo la legge 633 del 1941
5 JAN 2022 · Bentornati sulle frequenze di Parole in Viaggio
È iniziato un nuovo anno, è tempo di buoni propositi, è tempo di mettere davanti a noi alcuni punti fermi, è tempo prima ancora di capire quali possano essere questi punti fermi.
Questa epidemia ci sta lasciando dei segni, in qualche modo sta influenzando il nostro modo di vivere. Pensiamo alla mascherina, questo semplice dispositivo che ci protegge. Ma è anche un dispositivo che si pone tra due persone che si parlano, uno scudo contro i virus, una barriera per le parole che escono e di cui non vediamo la fonte. Siamo semplicemente costretti ad ascoltare il suono immaginando la sua provenienza.
Non a caso l’ascolto diventa più difficile, difficile perché è un semplice suono. Pensiamo a tutte le videoriunioni, in cui abbiamo scelto di spegnere la webcam, anche quando si parla. L’interlocutore riceve un semplice suono, proprio come quando si porta la mascherina.
E vale quindi la pena riprendere il concetto di ascolto, del verbo ascoltare che nel suo latino richiama il sentire con l’orecchio, dedicare il proprio orecchio all’altro. E l’orecchio nella sua versione ebraica richiama un’entità divina che nutre l’anima, come se l’orecchio divenisse lo strumento per accogliere il messaggio di qualcosa di più grande.
Non a caso infatti il verbo ascoltare ha portato varie influenze nella lingua, pensiamo all’obbedienza che altro non è che il semplice ob audire, ascoltare chi sta innanzi, o al verbo inglese to scout, scoprire, esplorare che deriva dal francese escouter, perché ascoltare altro non è che un esplorare con l'orecchio. O la stessa scolta, la sentinella che tra tutte le cose è chiamata a usare l’attenzione ai rumori, a prestare ascolto.
In altre parole ascoltare significa proprio dedicare spazio e tempo all’altra persona, porsi in una condizione di ricezione, rimanere senza scappare con i pensieri.
Infatti scappare potrebbe diventare un suo possibile opposto. Proviamo intanto a ricordare la sua etimologia, il latino ex cappare, letteralmente togliersi la cappa. Ma cos’è la cappa? Un abito, una sopravveste lunga, dotata di cappuccio. È evidente che scappare, togliersi la cappa, significa liberarsi di tutto ciò che potrebbe compromettere la fuga: un abito lungo non facilita la corsa, come al tempo stesso potrebbe essere facilmente afferrato da chi ci rincorre. In più, lo stesso cappuccio limiterebbe il campo visivo, crea una barriera tra l’occhio e l’orizzonte.
Pertanto, se si sceglie la fuga, è fondamentale svestirsi di questo intralcio, di questo abito poco adatto. Lo scappare quindi non è ancora la fuga, c’è una sottile differenza, è la scelta di non affrontare il presente e prepararsi ad evadere
In altre parole, tornando all’ascolto, lo scappare diventa proprio la scelta di non dare attenzione all’altro
Per questo nuovo anno, proviamo a tenerci la cappa e dedicare il giusto tempo all’altro, all’ascolto dell’altro, alla sua storia,
e anche se a volte scappiamo, proviamo a ritornare, come dice Daniele Silvestri
"Se potessimo tornare
Al ricordo che hai di me
Alle cose come sono
O come erano prima di distruggerle"
18 DEC 2021 · Bentornati sulle frequenze di parole in viaggio.
Sono tempi sempre più difficili e delicati: siamo protagonisti di un evento che sta cambiando e ha cambiato per sempre la storia, l’avvento di un virus in grado di incrinare ogni tipo di modo di vivere. Un impercettibile organismo ha messo in crisi il più sofisticato sistema evoluto, evoluto ma a quanto pare non abbastanza, visto che un virus invisibile ha messo in dubbio la fiducia verso gli altri e verso la scienza.
Fiducia e invisibile, due parole che meritano uno spazio, perché raccontano il mondo da una prospettiva molto particolare.
La radice latina fidere, avere fede, definisce la fiducia come un importante atto verso l’altra persona, la si carica di una responsabilità, di qualcosa che noi non riusciamo da soli a risolvere. Spesso, a un primo impatto aver fede rimanda a un’entità che va oltre l’aspetto umano, chiediamo l’intervento divino perché ci sentiamo incapaci di affrontare il futuro. È un atto di fede verso qualcosa che non possiamo vedere, che però siamo sicuri o perlomeno speriamo possa intervenire nella nostra vita.
Affidiamo il compito ad altri, in sintesi potremmo dire così. Eppure, in altre lingue neolatine, il concetto è ancora più coinvolgente: confiance in francese e confianza in spagnolo introducono il prefisso cum che ci ricorda un atto collettivo. Non sono più io a delegare l’altro, bensì diventa un’azione congiunta, un fidarsi insieme.
Tornando alla nostra lingua, esiste un sinonimo di fiducia, molto meno usato, più arcaico, quasi medievale, la fidanza, sempre dal latino fidere, da cui deriva fidanzamento, come promessa di vita di coppia, dove è evidente che l’azione, la promessa, è la sintesi di un percorso di entrambi i fidanzati, non è una delega, ma un mettersi in gioco reciproco.
In altre parole, quando io mi fido dell’altro, decido che una parte di me venga messa nelle mani di un’altra persona, che se ne prenderà cura, diventa una specie di tacito accordo. Infatti, dalla stessa radice deriva anche foedus, ovvero il patto, proprio a enfatizzare questo concetto di accordo: io affido a te una parte della mia vita perché sono sicuro che saprai accoglierla e curarla. Non è un patto sottoscritto, o firmato, non c’è nessun obbligo, nessuna coercizione, ma semplicemente la volontà, il desiderio, è una scelta spontanea che si fa verso qualcosa che al momento è invisibile
Invisibile è la nostra seconda parola di oggi: se proviamo a pensare alla versione positiva, visibile, sempre dal latino, la sua etimologia richiama video, l’azione del vedere, e bilem, la capacità, la possibilità. Visibile quindi come atto o capacità che lo rende manifesto
Invisibile di conseguenza è il suo opposto, che non può essere veduto, capacità tale da non essere visto.
Ma Chi è il soggetto dell’azione? L’osservatore cieco o l’osservato invisibile? Sembra un dettaglio irrilevante, eppure se ci pensiamo bene, decidere cosa vedere e cosa non vedere, è una caratteristica intrinseca della persona invisibile o è una prerogativa di chi guarda?
Il punto di vista diventa un elemento essenziale, perché definisce le regole del contesto. Provo a fare un esempio per spiegarmi meglio
Se penso alla nostra società, non posso non pensare agli invisibili: chi sono? Sono tutte quelle persone che per vari motivi non compaiono, non rientrano nei discorsi della gente, non fanno notizia, esistono ma hanno un ruolo considerato secondario. Eppure esistono. Chi definisce le regole dell’invisibilità? Facciamo l’esempio del migrante, coloro che abbandonano tutto, raggiungono una nuova meta e magicamente svaniscono: è una persona veramente invisibile o siamo noi a definire che non merita nessuna attenzione? Cosa ha fatto il migrante per diventare invisibile? L’invisibilità pertanto è un’azione soggettiva, siamo sempre a noi a definire chi o cosa sia invisibile.
Lo stesso virus che per sua natura è talmente impercettibile da definirsi invisibile, in realtà porta con sé effetti a catena che generano altre reazioni di invisibilità: le conseguenze della pandemia sono invisibili o sono io che decido di non vederle? Probabilmente serve un atto di fede, verso tutti coloro che quotidianamente lavorano per mantenere visibili tali conseguenze.
Possiamo rimanere ciechi di fronte a tutto ciò? Siamo noi ad essere ciechi o è l’oggetto osservato, gli effetti del virus, ad essere invisibile? Avere fiducia significa proprio affidare la nostra vita, in questo caso la vita della collettività, a tutti coloro che cercano di rendere visibile ciò che pochi ignorano o vogliono non vedere. La scienza cerca di mostrarci una strada per la salvezza, a noi la scelta di renderla invisibile oppure di percorrerla.
la fidanza diventa l’azione con cui affrontiamo l’invisibile e lo trasformiamo in un agire insieme, in un atto di fede collettivo.
Che sia il 2022 un anno carico di fiducia perchè solo insieme possiamo superare l’invisibile
13 MAR 2021 · Bentornati sulle frequenze di parole in viaggio. il periodo non è certo dei migliori, siamo chiamati nuovamente a far fronte a questa emergenza che non vuole lasciarci, un'emergenza unica nella storia recente dell'umanità, un'emergenza che costringe L'essere umano a ripensare alcuni suoi comportamenti.
E tra tutti sicuramente c’è L'arte di saper aspettare, L'arte di saper attendere che qualcosa accada. usiamo spesso questi due verbi come sinonimi, aspettare e attendere, quando invece analizzando un po' più nel profondo la loro etimologia, scopriamo che sono due modalità completamente diverse di far fronte alla realtà, di affrontare le cose di tutti i giorni con uno spirito ben diverso.
Aspettare Richiama il latino aspicere, dove è evidente l'azione del guardare verso, dell'osservare, sembra quasi che il soggetto che guarda sia chiamato a rimanere immobile controllando e aspettando per l'appunto che l'oggetto osservato arrivi nel suo campo visivo. Essenziale è l'immobilità dell'osservatore che utilizza tutte le sue energie per osservare qualcosa o qualcuno che sta arrivando. Completamente diversa invece è la prospettiva di chi attende: l'attesa richiama sempre il latino attendere, dove è forte la componente del movimento, della tensione, di qualcosa che si muove verso. Un insieme di dinamiche che in qualche modo smuovono L'Osservatore: anche se in apparenza rimane comunque fermo, immobile, in realtà al suo interno è stata innescata un’azione e reazione di pensieri, aspettative, sogni, desideri, paure, tensioni, emozioni. Potremmo definire L'attesa come quel turbinio di movimenti interiori che smuovono l'essere alla ricerca di una meta, di un orizzonte, di una luce che possa in qualche modo illuminare e mostrare ciò che sta attendendo. Potrebbe sembrare un Verbo statico, quella predisposizione ad accogliere qualcosa che da fuori va verso L'Osservatore, in realtà è un viaggio, un cammino dell'osservatore che attraverso un percorso intricato arriva a raggiungere la sua meta, dall’interno verso l’esterno, Arriva a scoprire ciò che stava attendendo.
E questi sono effettivamente i due atteggiamenti principali tra cui l'uomo può scegliere durante questo periodo di emergenza: scegliere se aspettare passivamente qualcosa che dall'esterno possa entrare nel campo visivo della propria vita, oppure avviare un movimento dall'interno, un movimento fatto di tensioni, che porta come conclusione la scoperta.
In un periodo di emergenza sta a noi decidere se aspettare o attendere... come D'altra parte sta a noi capire se l'attuale momento sia veramente un'emergenza oppure no. Forse vale proprio la pena approfondire il significato di emergenza, perché da troppi mesi, ma storicamente da tempo immemore, nella lingua italiana è stata utilizzata la parola emergenza con una connotazione decisamente negativa.
Eppure, il latino ci restituisce una visione di questa parola leggermente diversa: e-mergere, richiama sì l'azione del mergere, del immergere, dell’affondare, dell’annegare, dell’andare a fondo, dell’essere tirati verso gli abissi. Se fosse così, effettivamente la connotazione negativa ci sta tutta, emergenza come una caduta verso il basso, una caduta che non lascia nessuna speranza di sopravvivenza. Ma il verbo in questione è anticipato dal prefisso“e” che inverte il movimento, dall'alto verso il basso si trasforma in uno spostamento dal basso verso l'alto, dagli Inferi verso il cielo, è una emersione, un tentativo di liberarsi dal peso che ci tira verso in basso per riuscire a raggiungere la superficie, una liberazione se così vogliamo chiamarla. Potremmo definirla come l'azione di salvataggio, il momento in cui sentiamo la paura dell'affogamento, quella tensione che ci spinge a liberarci dalla zavorra che ci trattiene, a risalire la superficie e a respirare a pieni polmoni una volta raggiunta l'aria, dovrebbe essere proprio quella forza che spinge l'uomo a salvarsi, a ritrovare quell'ambiente in cui sta bene.
E con questi nuovi riferimenti forse è anche più semplice affrontare il periodo che stiamo vivendo: dinanzi a un virus che non accenna a fermarsi, come intendiamo vivere? aspettiamo o attendiamo? e soprattutto, diventa una vera emergenza, cioè una spinta a raggiungere la superficie? Ci sentiamo più tirati verso il fondo o questa attesa ci riempie di una forza salvifica, di un rinnovato slancio vitale? A volte anche le parole aiutano ad affrontare la realtà! E per concludere, vi lascio in compagnia delle parole di Giorgio Gaber
“Perché da sempre l'attesa è il destino, Di chi osserva il mondo, Con la curiosa sensazione, Di aver toccato il fondo Senza sapere, Se sarà il momento, Della sua fine, O di un neo rinascimento”
in ordine di esecuzione abbiamo ascoltato
Wait for her - Roger Waters
L’attesa di Giorgio Gaber
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4 OCT 2020 · Buonasera a tutti e ben ritrovati sulle frequenze di Parole in Viaggio.
Sono circa otto mesi che i media mantengono costante la notizia principale: tutto ruota attorno al Covid e alle sue conseguenze. Ritengo fondamentale mantenere alta l’attenzione su un argomento così delicato, sebbene temo si vada incontro a un problema molto grave, a un effetto collaterale più che un problema: l’essere umano per natura tende ad abituarsi. In alcune circostanze è decisamente un fattore positivo, pensiamo alla capacità di adattamento dimostrata negli ultimi millenni dalla nostra specie. Non c’è ombra di dubbio che sia una risorsa straordinaria. Purtroppo presenta anche qualche imperfezione e pertanto è fondamentale attivare un’altra grande risorsa che è l’atteggiamento di solidarietà, di mutuo aiuto o di semplice conservazione della specie. Tocca all’essere umano supportare il suo simile se uno dei due cade vittima dell’abitudine.
Abitudine è una parola speciale, racchiude l’habitus latino ed entrambe le parole richiamano il verbo habere. I latini descrivono l’habitus come tutto ciò che siamo soliti avere con noi, tutto ciò che siamo soliti portarci dietro con noi, di conseguenza pensando al contesto romano il primo riferimento è proprio l’abito, il vestito, ciò che sempre abbiamo e che in un certo modo ci presenta agli altri, l’elemento che ci introduce agli altri nella connessione con gli altri. L’abito era, e molto spesso è ancora, il biglietto da visita, uno strumento che tutti hanno a disposizione per farsi un’opinione dell’altro prima ancora di aver sentito la sua voce.
E il passaggio da abito ad abitare è praticamente automatico: il riferimento è sempre il verbo habere con un’accezione particolare. Abitare diventa l’azione che dura nel tempo, nel senso di continuare ad avere. Ed ecco spiegato perchè la casa diventa il luogo dove abitiamo, diventa il luogo dove ripetiamo la nostra azione di avere, ripetiamo azioni e gesti, giorno dopo giorno, tanto da dimenticare, o meglio dire dare per scontato che quello è il luogo dove noi ripetiamo e ripetiamo il nostro habitus. L’abitare diventa abitudine, diventa normalità, diventa semplice ripetizione senza costante consapevolezza del valore delle nostre scelte e dei nostri gesti. La forza delle abitudini sta proprio qui, ridurre al minimo lo sforzo, la fatica da parte del cervello, del corpo e anche delle emozioni, ridurre al minimo l’attenzione perchè la ripetizione ci rassicura, ci crea delle mura attorno ai nostri averi, attorno al nostro habitus, delle mura che diventano una casa, ovvero il luogo dove possiamo abitare. E se è vero che nella nostra dimora l’abitudine ci aiuta a vivere con meno paure, altrettanto non vale se l’abitazione si estende a ciò che è fuori dalle nostre mura di casa, se si estende ai vicini, alla città, al mondo.
Ed è per questo che l’abitudine può diventare un alleato del covid e un nemico per le nostre difese: sentendo e risentendo le notizie, noi pensiamo di abitare sereni, in realtà proprio per un meccanismo naturale ci stiamo abituando e alcuni di noi possono non vedere il rischio costante dell’abitudine, della ripetizione di gesti senza consapevolezza.
Ma nel caso del covid, una possibile soluzione sta proprio nella parola habitus, l’abito, perchè se riusciamo a inserire nel nostro abito quotidiano l’uso corretto della mascherina, una buona parte dei problemi è risolta alla radice.
E mascherina, una maschera piccola, racchiude un dettaglio molto particolare: l’etimologia di maschera è molto ambigua, trova radici e definizioni molto varie e diverse, quasi ad indicare che questo oggetto nasce molto prima di ogni lingua recente, si potrebbe quasi azzardare che ha da sempre accompagnato la presenza dell’uomo su questo pianeta. Non è un aspetto secondario, sapere che in un certo senso la maschera fa parte dell’habitus dell’uomo, ci ricorda che tra le potenzialità dell’essere umano c’è anche quella di essere diverso, di mostrarsi in un modo diverso, di trasformarsi all’occorrenza. E il covid ci ricorda questo nostro talento, sapersi adattare, sapersi trasformare, abitare in modo diverso, indossare un habitus nuovo, saperci mascherare quando serve.
in ordine di esecuzione abbiamo ascoltato
nubi di ieri sul nostro domani odierno di Elio e le storie tese
esseri umani di Marco Mengoni
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6 SEP 2020 · Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di parole in viaggio! abbiamo vissuto dei mesi molto particolari, unici, o forse potremmo definirli provocatori. Provocatori nel senso che ci hanno offerto una possibilità magica: fermarsi, interrogarci sul mondo e su noi, prendere una decisione e ripartire. Sembra un passaggio scontato, ma il più delle volte ci manca il tempo o la volontà per farlo: di fronte a uno stimolo arriviamo presto a una decisione, saltando la fase della pausa, del tempo necessario per osservare e osservarci. Ci lasciamo prendere dalle tante e veloci cose che ogni giorno dobbiamo fare e di conseguenza è diventato normale non fermarsi. Invece, questi mesi ci hanno aiutato a riscoprire un altro sistema che da sempre appartiene all’uomo: prendersi il giusto tempo prima di scegliere e ripartire.
Uno degli aspetti che più ci hanno colpiti nel profondo è stata la distanza, il dover prima rimanere completamente separati, chiusi in casa, e successivamente mantenere le distanze di sicurezza. Distanza, dal latino distare, indica l’essere disgiunto da altre persone o luoghi. Un distaccamento fisico, una lontananza. E’ curioso che il suo opposto, la vicinanza, ha un significato molto particolare. Vicino richiama il latino vicus, ovvero il quartiere, il rione, il borgo. Forse è quello che la lingua vuole comunicarci in questo momento storico: sentirsi vicino a qualcuno significa appartenere allo stesso quartiere, sensazione in parte vissuta durante il lockdown, quando molti italiani hanno scoperto e conosciuto il nome del vicino, hanno dato un volto alle case, alle porte, alle finestre. Alla fine vicus, il rione, è proprio l’insieme delle case, delle dimore ma anche delle infinite sensazioni di sentirsi a casa. Un mondo globale e interconnesso non ha più bisogno delle mura per identificare il luogo, ma preferisce le relazioni.
Relazione, la relatio latina, non ha un unico significato, anzi. Sicuramente richiama il riportare, l’azione del portare di nuovo qualcosa, ma è anche la proposta da portare in senato, come è anche il racconto, il saper narrare. Arriva solo alla fine l’attinenza, il legame con qualcosa. In una parola si nasconde un mondo di significati ed effettivamente, anche al giorno d’oggi, avere una relazione o riuscire a mantenere una relazione, che sia affettiva, di amicizia, di lavoro o qualsiasi altra forma, prevede sicuramente un legame, ma anche il racconto, inteso come non nascondere le proprie sensazioni, le proprie emozioni, ma volerle condividere con l’altro. E soprattutto la relazione è riportare qualcosa, non basta consegnare un’unica volta, ma significa impegnarsi a ritornare, prendere e portare continuamente le nostre cose all’altro.
Ora che sta per ripartire una nuova fase, il lavoro che riprende, le scuole che riaprono, le attività che ripartono, come la affronteremo? Saremo in grado prenderci il giusto spazio e tempo per affrontare la realtà? Oppure torneremo a dividerci noi per primi, senza bisogno di nessun decreto, di nessun lockdown, ma spontaneamente sceglieremo di separarci dalla relazione con l’altro.?
Perchè c’è grande differenza tra separazione e divisione, c’è un grado di consapevolezza alle spalle che determina alcune scelte importanti. Separare significa prendere ciò che è pari, ciò che è uguale e posizionarlo in modo segregato, spaiato. Divisione invece prevede un’azione di vidus, di visione, di conoscenza, di ragionamento, di giudizio per poi rompere l’unione, perchè si è consapevoli del beneficio che tale divisione porterà. Sono modi diversi di intendere, sono modi diversi di vedere cosa ci succede attorno. Perchè se per il bene collettivo si divide le persone, significa che c’è stato un ragionamento e una consapevolezza tale che hanno portato a questa scelta. E chi subisce l’effetto può leggere la situazione come una separazione, come un rompere ciò che era normale e pertanto viverlo come un sopruso. Ma la stessa persona può vedere le cose come una divisione, come un allontanamento delle persone ma non delle relazioni. Perchè la relazione, per definizione tende a ritornare, a riportare continuamente le cose all’origine; perchè la relazione è un racconto e come tale qualsiasi esperienza si vive, ingloba tutto in questa narrazione di vissuti; perchè la relazione è legame che va oltre il confine del muro o del distanziamento.
E’ sempre questione di punti di vista, ognuno è libero di vivere le esperienze con i suoi occhi.
buona ripresa a tutti!
in ordine di esecuzione abbiamo ascoltato
Good Times di Ghali
Marooned dei Pink Floyd
Balla per me di Tiziano Ferro e Jovanotti
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22 MAR 2020 · Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di Parole in Viaggio.
è iniziato un vero e proprio viaggio, non ci sono tante altre parole per descrivere la situazione in cui il nostro Paese insieme a tutti gli altri stati del mondo si trova. Un viaggio particolare, un viaggio che non ha meta ben definita se non la salvaguardia della salute. E per far questo, è giunto il momento di rivedere le priorità, di fermare il modello socio-economico che da decenni marciava ininterrotto: ci hanno provato in tanti, studiosi, luminari, pensatori, ma le loro parole non sono state sufficientemente convincenti a trovare una strada alternativa per rimodulare i modelli di sviluppo globale.
In realtà questi giorni non possono essere usati per sterili polemiche contro amministratori e politici. Questo è il nostro tempo dell’attesa, dell’osservare, del guardare il mondo con quell’atteggiamento del servo umile, attento al suo padrone: ob servare. E il nostro padrone, o più che padrone il nostro punto di riferimento oggi come oggi devono essere tutte quelle persone che non possono rimanere chiuse in casa per mantenere elevato il livello della nostra sicurezza, per garantirci un elevato standard di benessere.
Perchè forse non riusciamo a cogliere bene lo stato delle cose: abbiamo una casa, abbiamo uno spazio in cui muoverci liberamente, abbiamo una tecnologia tale da tenerci collegati con tutte le altre case, abbiamo un tempo che troppo a lungo non abbiamo potuto assaporare; e infine, se manteniamo tutte le precauzioni, siamo anche in buona salute. Questa è la realtà, uno spazio, un tempo, la salute. Certo, è strano aprire la finestra, vedere la natura che ci chiama con i suoi panorami, i suoi tramonti, le sue montagne, i suoi cieli incantati. Ma in questo momento dobbiamo guardare al nostro spazio e imparare a dire grazie.
Grazie è una parola meravigliosa. Ci ricorda innanzitutto le tre grazie, le tre figlie di Giove che diventano il simbolo della bellezza, della gioia e della fioritura. E sono tre concetti che sempre quando pronunciamo questa parola magica inondano di profondità ciò che ci circonda. E devono essere le nostre guide quando pensiamo a tutti quelli che in questi giorni stanno lavorando per noi: rappresentano la bellezza del nostro Paese, una bellezza che rimane altissima anche quando sembra sprofondare negli abissi. Sono portatori di gioia, perchè stanno dimostrando a tutto il mondo quanto amano il loro lavoro, quanto valga quel senso di sentirsi parte a un sistema dove ognuno ha un ruolo fondamentale e prezioso. Infine sono come i fiori, sanno che il loro compito è ora di mantenere sana la pianta, curarla dalle infestazioni, dalle malattie, tenere vivo il cuore perchè arriverà il giorno in cui il fiore tornerà a mostrare la sua parte migliore, quel colore, quella luce, quel profumo che tutti noi conosciamo.
Quando pronunciamo un grazie, ricordiamoci tutto questo, ricordiamoci anche che di solito diciamo grazie quando riceviamo un dono. Sembra strano, ma osserviamo bene il nostro stare a casa, il poter stare a casa in uno spazio nostro, con un tempo nostro, con i nostri cari vicini o facilmente raggiungibili con le nuove tecnologie, questo lo possiamo definire un dono straordinario. E come tale, va portato rispetto per chi ce lo dona, quotidianamente.
E allora, a voi che state lavorando, che state rischiando le vostre vite, che state usando il vostro tempo per noi, vi diciamo Grazie, per la bellezza, per la gioia, per i fiori che ogni giorno ci portate nelle nostre case.
e la bellezza della parola grazie, non si ferma solo alla lingua italiana. Se prendiamo il corrispondente verbo inglese to Thank scopriamo un altro interessante aspetto: alla base di tutto ritorna il verbo latino tongere, che significa conoscere, sapere. Inizialmente pertanto il grazie corrispondeva all’azione di consapevolezza, coincideva con il pensiero razionale di gratitudine, rendo grazie perchè riconosco il tuo gesto. E’ un po’ quello che ci sentiamo di dire oggi a tutti i lavoratori che affrontano l’emergenza virus, a tutti i volontari: riconosciamo le vostre azioni, siamo consapevoli di quello che fate e per questo vi diciamo thank you! Ogni lingua va bene per manifestare la nostra gratitudine agli eroi che silenziosamente lavorano, dimostrano la loro forza, eroi dal sanscrito vira, da cui la forza vis latina, uomini vigorosi che non si tirano indietro di fronte alle necessità.
grazie, a voi possiamo solo dire grazie!
15 MAR 2020 · Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di parole in viaggio
Stiamo vivendo giorni molto particolari, giorni in cui il concetto di tempo e di spazio lasciano posto a una nuova concezione di vita. La diffusione di questo virus ha sconvolto non tanto la paura e l’angoscia di esserne vittima, quanto invece ha rivoluzionato le nostre abitudini. C’è una duplice prospettiva, da un lato purtroppo le persone che stanno vivendo il contatto con la malattia, da chi è vittima del virus a chi cerca di rendere la guarigione più veloce e sicura possibile ( e a tutte queste persone va il nostro pensiero, il nostro supporto e il nostro ringraziamento), dall’altro invece la gran parte della popolazione che è costretta a rivedere tutto ciò che prima era scontato e abituale.
Una quarantena forzata per chi ha conosciuto il virus, una quarantena forzata anche per chi fortunatamente non l’ha incontrato.
Quarantena è una parola che in questi giorni viene spesso usata, l’isolamento, l’abbattimento dei contatti tra persone. Il concetto di quarantena nasce in pieno medioevo, quando a Venezia, la Serenissima Repubblica di Venezia, nel suo periodo di splendore, gestiva contatti mercantili e non con tutte le terre allora note, tutto il mondo conosciuto era in contatto con Venezia. E anche per questo non di rado arrivavano con merci e persone, anche malattie. Una volta Scoperto che il contatto era la causa, obbligarono l’equipaggio delle navi che sbarcavano a passare un periodo di isolamento prima di girare liberamente per calli e campielli, un periodo durante il quale se non comparivano strani sintomi o segni nel corpo, identificava la persona come non portatrice di malanni. Un periodo di quaranta giorni, una quarantina di giorni da cui la nostra parola…
e di eventi catastrofici, purtroppo, ne è piena la storia dell’uomo; ancor di più da quando l’uomo ha iniziato a documentare ciò che succedeva: la parola ha trasformato i fatti in memoria collettiva, sebbene non sempre la memoria collettiva rappresenta quell’archivio che tutti siamo invitati a consultare. Non sempre gli esempi del passato sono elemento sufficiente per considerare i fatti del presente. Forse per pigrizia, perchè in fin dei conti è una delle caratteristiche umane più innate, affrontare un compito usando il minor sforzo possibile. Consultare le fonti del passato, analizzarle, compararle con i dati attuali, fornire diverse prospettive di lettura, scegliere la strategia risolutiva: sono tutte azioni che richiedono sforzo e energia, non sempre facilmente disponibili. Un esempio l’abbiamo davanti agli occhi, in queste due-tre settimane abbiamo sentito usare la parola virus e relative conseguenze in mille modi diversi, anche dalla medesima persona. E pazienza se il racconto viene da l’uomo che ne discute a tavola con la sua famiglia, è più che legittimo cambiare opinione; mi lascia molto più perplesso se questa mutazione di pensiero avviene dai vertici, da governatori che hanno in mano la salute dei loro cittadini… e purtroppo qualche esempio, senza fare nomi, li abbiamo sentiti: un giorno è influenza, un giorno bisogno chiudere tutto, il giorno dopo le scuole vanno riaperte, un altro giorno va estesa la zona rossa, un altro ancora il servizio sanitario è pronto, il giorno appresso la sanità è al collasso, un giorno è colpa dei topi o di chi li mangia, un giorno è pandemia.
Siamo tutti esseri umani, in fin dei conti è una delle verità che questo virus ogni giorno ci ricorda. Siamo tutti esseri umani, con le medesimi fragilità, e possiamo tutti sbagliare, soprattutto nel valutare, nel dare un’opinione.
E siamo così umani che infatti le parole scritte 200 anni fa calzano ancora perfettamente, mi riferisco agli ultimi paragrafi del capitolo 31 dei Promessi Sposi che raccontano come anche medici, giudici, governatori dell’epoca adattarono il loro pensiero sulla peste, a quella malattia che nessuno inizialmente voleva chiamare con il suo nome.
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire.
straordinariamente attuali le parole del Manzoni,
l’uomo agisce con semplicità, con rapidità, scegliendo spesso la strada più facile e meno faticosa.
Eppure, in questi giorni è chiamato a fare un grandissimo sforzo, forse il più imponente sforzo che si possa chiedere a un essere umano: cambiare le sue abitudini. Non c’è richiesta più pesante che si possa fare a un uomo se non quella di cambiare, cambiare l’ora della sveglia, cambiare punto di vista, cambiare ristorante, cambiare strada, cambiare lavoro, cambiare compagnia, cambiare quando i figli crescono, il cambiamento è spesso uno sforzo enorme. Uno sforzo che porta con sè anche grandi vantaggi se è accompagnato da un’attesa.
Cambiamento e attesa possono essere considerati due componenti di uno stesso elemento. E se c’è attesa, anche lo sforzo vien più facile.
E attesa, l’abbiamo già raccontata in un’altra puntata, è una parola che ci racconta come non è una questione di tempo, il tempo necessario per aspettare qualcosa, la sua durata. L’attesa è una questione di sguardi, attesa richiama il verbo latino attendere, prestare attenzione, osservare, dedicarsi a.
Ed ecco la chiave di lettura di questo periodo complesso: se siamo chiamati a cambiare le nostre abitudini, senza sentire un’attesa, saranno giorni infiniti, pesanti e difficili da sopportare. Se invece, affianco al cambiamento, sentiamo forte un’attesa, uno sguardo verso qualcosa che ci interessa, un’attenzione a qualcosa, una dedizione, ecco che il tempo sarà solo il mezzo per raggiungere quello che noi desideriamo
E prendendo in prestito le parole di Nicolò Fabi
come fare un viaggio al centro della terra
o a ritrovare sulla luna un senno nuovo
come cambia il peso delle cose
il valore del denaro
della forza delle braccia
del sonno e del risveglio
del pianto del sorriso
dell'aria che respiri
Buona attesa a tutti… andrà tutto bene!
25 FEB 2020 · Buonasera a tutti e bentornati sulle frequenze di Parole in viaggio
Sono giorni molto delicati questi in Italia e nel mondo. il Covid19, comunemente chiamato Coronavirus si sta purtroppo diffondendo non solo in Cina, ma anche nel nostro Paese.
Prendo in prestito le parole che spesso sentiamo nei notiziari in questi giorni, delegando agli esperti invece tutto ciò che riguarda il trattamento e la prevenzione da questo virus.
La paura di contagio dal virus è giustamente elevata. In effetti, anche la parola virus porta con sè un significato chiaro, ovvero il concetto di veleno che ci assale, di una sostanza velenosa che in modo costante prova ad aggredire. Un po’ diversa invece è la situazione per l’influenza, dal latino in fluere, richiama lo scorrere dentro, insinuarsi all’interno.
Sono due modalità diverse di possedere l’altro: una molto aggressiva, un operare alacremente, un’azione che senza pausa ci assale, un movimento dall’esterno verso l’interno; l’altra invece prevede che siamo noi ad aprire un pertugio, e per quanto piccolo, in fisica la regola dei fluidi è molto chiara
“I fluidi si adattano alla forma del recipiente che li contiene. Questo avviene perché i fluidi non sono in grado di opporre resistenza ad una forza applicata tangenzialmente alla loro superficie”
cosa significa? semplicemente che se lasciamo un fluido entrare nel nostro corpo, nella nostra vita, si adatterà alla nostra forma, riempiendo ogni nostro spazio vuoto. Noi crediamo di controllare tutto ciò che entra, perchè in realtà non deforma la nostra struttura, è
semplicemente un liquido che segue la nostra forma. Forse è per questo che non ci accorgiamo di essere immersi in informazioni, credenze, idee, pensieri che non sono nostri; pensiamo di avere costantemente in mano le redini del nostro pensiero perchè il liquido inserito si adatta a noi, ma non ci accorgiamo che per quanto la struttura esterna ancora ci assomigli, il contenuto ormai è invaso giorno dopo giorno da questo fluido che si insinua in ogni angolo all’interno di noi.
osa ne consegue? forse che crediamo di avere un pensiero soggettivo, quando invece a parlare è la contaminazione del liquido con la nostra essenza, ne siamo talmente immersi che non distinguiamo il pensiero altrui dal nostro. E il tutto accade ricordiamo con un movimento di apertura dall’interno verso l’esterno: non è l’aggressione velenosa di un virus dall’esterno, è una scelta più o meno consapevole di tenere aperto un passaggio, di lasciare un fluido esterno scorrere dentro di noi.
Alla fine, il lavoro dell’influencer è proprio questo: mettere a disposizione parole, immagini, modi di fare, pensieri, scelte, paure, desideri, tutto questo a disposizione di chiunque decida di tenere aperto un pertugio. L’influencer non ci assale come un virus, non ci chiede di seguirlo, siamo noi ad aprire un passaggio e lasciare che entri. Avviene così la contaminazione del pensiero. E anche contaminazione ha una sua specifica radice, “tag”, sia di tangere, sia di tagmen, sia quindi di entrare a contatto con, sia di malattia contagiosa: ne deriva un contatto con qualcosa di sporco, con qualcosa che lascia il segno, che modifica la sua purezza.
La nostra purezza di pensiero in cambio di sentirsi inondati da una forza esterna. E’ proprio cambiato il modo di agire, una volta erano i predicatori, gli oratori ad andare alla ricerca di un pubblico, a portare il loro pensiero, a tentare di influenzare le folle. Oggi invece la folla è seduta comoda sul divano, nella sicurezza della propria casa, lontana dalle piazze, dai pulpiti da dove un tempo si ascoltavano i relatori, e in questo comfort apre una porta ad altre persone che senza la fatica di girare le città, le piazze, le folle, riescono a insinuarsi nelle menti delle persone e senza alcuna aggressione ne contaminano il pensiero, cioè riducono quel grado di purezza, lasciando tracce di inconsapevole impurità
16 FEB 2020 · buonasera a tutti! bentornati sulle frequenze di parole in viaggio!
ascoltando un po’ di musica in questi giorni, mi son imbattuto in una frase che mi ha fatto un po’ riflettere e mi ha ispirato ad approfondire alcune parole. La canzone è molto conosciuta, Shallow, a un certo punto Lady Gaga chiede “Non sei stanco di cercare di riempire quel vuoto?”
ad una prima lettura, può sembrare una semplice esternazione di uno stato di insoddisfazione, la mancanza di qualcosa che ci spinge all’azione di riempire, di compensare la parte mancante.
Provando invece ad approfondire i singoli termini, ne esce una considerazione leggermente diversa.
Iniziamo con la parola stanco. Ha visto alcune modifiche nel tempo, ma l’origine rimane il verbo latino stagnare che significa far rimanere fermo. Infatti lo stagnum si riferisce proprio all’acqua ferma, immobile, da cui il verbo stagnare, ovvero l’impossibilità per l’acqua di scorrere. Diventa stanco colui a cui manca quella leggera pendenza che permette all’acqua di muoversi. Stanca è la persona che si ferma, immobile, senza le forze necessarie per spostarsi.
vuoto invece è un’altra parola interessante: l’etimologia in questo caso è un po’ più discussa, i più si concentrano sul verbo latino vacuare che significa vuotare, letteralmente rovesciare, sgomberare da cose e persone, e altri sull’aggettivo viduus, essere privo di, da cui anche deriva vedovo. In entrambi i casi siamo in presenza di un’azione di sottrazione di qualcosa, si rovescia un contenitore che rimane privo di qualcosa. La Treccani infatti definisce vuoto come ciò che non contiene quello che dovrebbe o potrebbe contenere..
infine, l’ultima parola, riempire richiama sempre il latino implere che significa oltre al classico colmare, anche condurre a termine, saziare, conseguire pienamente.
Con queste piccole informazioni dalla storia delle parole, assume anche un altro significato il testo della canzone. “Non sei stanco di cercare di riempire quel vuoto?”
la possiamo rivisitare come un “non hai più le forze per vincere l’immobilità e tentare di saziare le tue giornate evitando che altri rovescino la tua vita?”
cambia la prospettiva, cambia che il riempimento diventa una piena realizzazione di sè, dinnanzi a un vuoto che è semplicemente la sensazione di sentirsi privati di qualcosa perchè qualcuno ha rovesciato la nostra pienezza, le nostre ambizioni. Semplicemente non conteniamo più quello che dovremmo o potremmo contenere. Da qui deriva la stanchezza, una mera stagnazione, le nostre giornate si fermano, diventano immobili come l’acqua di uno stagno.
E per muovere l’acqua stagnante serve una piccola inclinazione, quella leggera pendenza che rende lo spostamento del liquido naturale. Inclinare in latino significa piegare, ma anche travolgere, far cadere oppure tendere. Questo è quello che ci serve, quando ci sentiamo immobili, quando per quanta acqua inseriamo, il vuoto non si riempie. Forse è perchè ci manca qualcosa a cui tendere, qualcosa che travolge le nostre giornate e al tempo stesso ci riempie.
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